“La morte sui social è il titolo del webinar che si è svolto Venerdì 18 Dicembre, condotto dalla Dott.ssa Sara Battistello, vincitrice, nel 2017, della Borsa di Studio  “Sara Cesari”.

Il seminario era inserito nel ciclo di webinar gratuiti sul lutto promossi da “Uno sguardo al cielo”.

Chi è il pappagallo? È un piccolo animale colorato dall’incredibile capacità di ripeterci. Di ripetere persino la voce che non ha più suono di un caro defunto. È capace di farla vibrare ancora una volta e, se anche la riproducesse un poco diversa, sapremmo “esattamente che è lui”, che in quel momento, quella voce, è la persona che stiamo ricordando. É ciò di cui ci stiamo convincendo nelle narrazioni delle nostre vite sul web, delegando alle bacheche dei social network la narrazione della vita vissuta, così per come noi la vogliamo ripetere agli altri. E quando moriremo saranno proprio i nostri walls, su cui abbiamo affisso la nostra voce, a farci da pappagalli di noi stessi che ci ripeteranno per gli altri che verranno. “Allora viviamo pure come se dovessimo vivere per sempre”, sono le parole di Tess, protagonista del lungometraggio di Marjorie Prime. In effetti, è quello a cui in molti stanno aspirando, cercando e (forse) creando un’immortalità digitale. Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han sostiene che il web rende possibile protocollare tutta la nostra vita, che si riflette, sia che ne siamo consapevoli o no e che lo accettiamo o meno, nella rete digitale. Il nostro destino sarà quello di diventare degli spettri digitali, a disposizione di chi incappi in un qualsiasi dato registrato nell’arco temporale della nostra vita. La narrazione web ci vede protagonisti, allo stesso tempo, sia come autori e sia come oggetto del nostro racconto che conduciamo con il mondo interconnesso. Le due abitazioni online e offline, osserva Sisto, “non sono […] semplicemente sovrapposte. Il loro confine, con l’incessante evoluzione del web, è sempre più sfocato” (SISTO, 2018), per cui: “Il mondo digitale trabocca nel mondo analogico offline, con il quale si sta mescolando”. Viviamo, insomma, un’esperienza di vita onlife. Per Floridi diventeremo, e in parte siamo, degli inforg “organismi informazionali reciprocamente connessi e parte di un ambiente informazionale [l’infosfera], che condividiamo con altri agenti informazionali, naturali e artificiali, che processano informazioni in modo logico e autonomo” (Ibidem). Questo comporta una riflessione seria del nostro legame anche con la morte e con il lutto, necessariamente modificato con l’ingresso del web nelle nostre esperienze di vita. Infatti, possibilità scorte, indovinando il futuro prossimo, solamente nella fantasia cinematografica, ad oggi sono diventate opportunità reali nel mondo virtuale, nella vita onlife. Emergenti start up e affermate imprese stanno creando piattaforme a cui è possibile accedere per chattare con la persona cara defunta o per fare interagire tra loro vivi e morti nella casa dell’infosfera, perdendo l’informazione della realtà fisica, dato che questa non è più il presupposto necessario a rendere reale l’interazione tra organi informazionali comunicanti. Si promette l’immortalità dopo la morte e a chi resta l’eternità del dialogo. La domanda è se queste nuove possibilità possano apportare un aiuto ai percorsi di elaborazione del lutto servendo da potenti strumenti, o se ci stiano accompagnando verso una patologica negazione della morte, confermandone la proibizione che la nasconde da qualche secolo. Nell’abitazione virtuale, l’immagine è estremamente mobile e mutevole poiché l’esperienza individuale e collettiva che rappresenta viene costruita attraverso stratificazioni di dati e di significati, nonché da ibridazioni e interconnessioni (Ibidem). Gli algoritmi sviluppati con l’intelligenza artificiale possono fornire un’immagine del morto molto verosimile. Egli lascia in eredità tracce di sé che ora qualcuno sa ricostruire e riorganizzare in un software evoluto che potrà persino ampliare e restituire in forma originale a chi vi si confronterà, perché no, in un dialogo vero e proprio. I chatbot e le piattaforme digitali in cui è possibile interagire con i morti, portano con sé il rischio di confondere la comunicazione online con il defunto con la forma di comunicazione che forse più le si avvicina, ossia la comunicazione a distanza. Così come nella comunicazione a distanza, infatti, anche nelle chatbot non occorre la presenza fisica della persona che contattiamo. Questa sembra vivere all’interno dei nostri dispositivi, tanto da diventare, in qualche modo, il dispositivo stesso su cui stiamo parlando. Ci abituiamo all’idea di mantenere con la persona a noi cara quel solo contatto virtuale con la speranza, un giorno, di poterla reincontrare, l’illusoria proiezione di poter un giorno riabbracciare il caro estinto. All’utente non è permesso di vivere il tempo del distacco, dell’elaborazione del lutto e di giungere, infine, alla conclusione certa che ciò è impossibile. Le immagini digitali vive e attive, infatti, frapponendosi tra chi è in lutto e il mondo terminato, alterano quest’ultimo, tenendolo artificialmente aperto (SISTO, 2018). La digital death non è di certo, per quanto sin qui rappresentato, priva di ombre. Ma non per questo non presenta in sé alcune luci, molte opportunità per un ripensamento positivo sul percorso del lutto. Il cimitero, inteso come raccolta di storie che raccontano, a chi voglia ascoltarle o leggerle, le narrazioni di vite passate, è stato, nella letteratura, più volte immaginato. Tra le varie opere, mi piace ricordare i protagonisti di carta radunati nella poesia di Edgar Lee Master, nel libro l’Antologia di Spoon River, tradotto e pubblicato per la prima volta in italiano da Fernanda Pivano. Il bisogno e anche la curiosità di leggere le narrazioni di chi è morto non è cosa d’oggigiorno, ma un desiderio che si tramanda da anni, da secoli (si pensi agli Idilli di Teocrito, così come all’Antologia palatina, raccolta di epigrammi e epitaffi greci). È comprensibile, allora, il perché si siano creati cimiteri anche nel mondo virtuale, come spazi di raccolta, appunto, di narrazioni di vite che furono. Come il lettore che apre l’Antologia di Spoon River immergendosi nella storia di uno sconosciuto, chi naviga tra le pagine di un sito o di un social network potrà visivamente intuire l’intangibilità della morte e la precarietà dell’esistenza tra le tante storie narrate di vite concluse. Ci si sente spinti a costruire un romanzo immaginario a partire dal finale della trama della sua vita, cercando di intuire la qualità della sua esistenza e le conseguenze emotive sui parenti che ha lasciato. Un’operazione simile a quella che si compie fisicamente nei cimiteri, ma con molti dettagli e materiali in più a disposizione. L’occasione della Digital Death è proprio la stessa opportunità di riflettere sulla nostra mortalità. Le piattaforme digitali di raccolta e organizzazione della memoria di chi muore sono volte a essere utilizzate, più che dal defunto come una sorta di promessa di immortalità, da chi rimane in vita a ricordarlo. Sarebbe opportuno, allora, che ognuno di noi si facesse coraggio e si rendesse responsabile di ciò che lascia in eredità, non solo attraverso un testamento con cui dia disposizioni circa i beni della casa fisica, ma anche adoperandosi a fare un’opera di döstädning, ossia di pulizia e selezione dei propri oggetti virtuali. A supporto di tale impegnativo lavoro, si suppone che una delle dieci professionalità più richieste nei prossimi anni sarà proprio quella del digital death manager, una sorta di “becchino digitale”, il quale aiuterà gli abitanti dell’infosfera a prendere alcune scelte relative alle sorti della propria immensa eredità di dati e di oggetti digitali. Per concludere, considerando l’imminenza e immanenza delle nuove soluzioni e opportunità al nostro complicato rapporto con il fine vita e con il tempo che passa che ci offrono le nuove tecnologie, “è ora di prenderne coscienza e di affrontarle con cognizione di causa se non si vuole rimanere impreparati dinanzi a un ritorno della morte nello spazio pubblico tanto repentino quanto imprevisto” (SISTO, 2018). Le tecnologie digitali potrebbero essere foriere di un nuovo negazionismo della morte, ma non per forza. Potrebbero, invece, permettere una nuova e positiva gestione del rito funebre e aiutarci nel lutto, restituendogli, peraltro, la dimensione collettiva di cui è stato privato negli ultimi due secoli. La rinascita della buona morte è cominciata, sta a noi dedicarle l’attenzione e la cura che si merita affinché ci permetta di vivere serenamente, con quel tanto di paura che ci faccia apprezzare il significato che la fine dà alla vita, scrollandoci di dosso il terrore che ci ha immobilizzati in un falso sogno di eternità.

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