Mi sembra così strano rileggere queste parole oggi che non ci sei più. Te ne sei andato in silenzio, così come in silenzio hai vissuto. Nel mio cuore, così come in quello di tutti coloro che ti hanno amato, è calato un velo di profonda tristezza. Solo i tuoi occhi potrebbero farlo svanire. Quegli occhi che sapevano pronunciare le parole più dolci del mondo. Quegli occhi che si sono chiusi per sempre su un mondo che è sempre più incapace di vedere, di ascoltare, di capire. Di amare. La tua storia è entrata così profondamente in me da segnare una strada, una direzione. Non c’è altra strada che amare ciò che si fa. Non c’è dono più grande di quello di sé. La tua vita me lo ha insegnato. Porto con me i tuoi occhi, il ricordo di un tempo in cui tutto si poteva e che adesso mi sembra scivolare via, più veloce di quanto vorrei. Ti ho conosciuto da bambino, ho coltivato insieme ai tuoi splendidi genitori la speranza: prima la speranza che la malattia si arrestasse, poi che il dolore ti desse tregua, infine che tu conoscessi la pace che hai a lungo atteso. Hai voluto darci il tempo per trovare la forza di lasciarti andare.Un giorno ci rivedremo. Forse non avrò bisogno di prenderti in braccio per fare le scale, forse mi saluterai con la voce che conoscevo, forse guarderemo ancora i cartoni che ti piacevano tanto. E ci abbracceremo forte, per recuperare tutto il tempo in cui non abbiamo potuto farlo. Voglio dirti che la tua vita è stata un esempio. Una testimonianza. Un dono. Che non ha lasciato niente e nessuno uguale a prima di averti conosciuto. Ci sei entrato nell’anima e lì rimarrai fino all’ultimo dei nostri giorni. Uno sguardo al cielo, questo è ciò che ci resta da fare. Guardare in alto, ancora più in alto. Perché lì sei tu. E ovunque noi siamo. Veglia su di noi, sui tuoi genitori, sui tuoi fratelli, sui tuoi compagni di scuola. Veglia sulla nostra capacità di riconoscere e fare ciò che sentiamo giusto, indipendentemente dalla fatica che ci costa. Aiutaci a ricordare le parole che abbiamo letto nei tuoi occhi e a trattenerle per sempre nella parte più profonda della nostra anima. Filippo ha tre anni e sta per cominciare a frequentare la scuola dell’infanzia. E’ il più piccolo di tre fratelli e non vede l’ora di diventare grande come loro che vanno a scuola tutti i giorni. Arriva il primo giorno e Filippo è bellissimo nel suo grembiulino a quadretti bianchi e blu; sulle spalle ha lo zainetto che era stato di suo fratello; non vorrebbe salutare la sua mamma, ma vede che ad aspettarlo ci sono delle maestre simpatiche e tanti bambini, allora si lascia convincere. Appena varca la soglia della sezione cade per terra. “Hai perso l’equilibrio Filippo?” chiede la mamma. Filippo non si ricorda. Per una frazione di secondo non ha visto più niente ed è caduto. La mamma ci scherza su per consolarlo, gli stampa un bacio che sa di rossetto alla fragola sulla guancia e si allontana. A Filippo piace molto andare a scuola, gli piacciono i bambini e gli piacciono le maestre. L’unica cosa che non gli piace della scuola è giocare in salone e in giardino perché si stanca a correre  e finisce quasi sempre per cadere. Le maestre lo consolano, ma Filippo vede che spesso si guardano tra di loro e sembrano preoccupate. Un giorno le osserva mentre parlano e afferra qualche parola: dicono che perde spesso l’equilibrio e che parla poco. E’ vero, Filippo dice pochissime parole, ma non sente la necessità di parlare perché lui le parole le ha tutte in testa e quando ha bisogno di qualcosa la mamma e i suoi fratelli lo capiscono sempre. Le ascolta ancora un po’ e capisce che le maestre vogliono parlare con la sua mamma. Il pomeriggio successivo la mamma lo viene a prendere a scuola, ma non lo accoglie con il sorriso di sempre. Anche lei ha lo stesso viso preoccupato delle sue maestre. Dopo qualche settimana la mamma e il papà gli dicono che quel giorno non sarebbe andato a scuola. “Andiamo da una dottoressa che vuole vedere come sei cresciuto” gli dicono. A Filippo non piacciono molto le dottoresse, hanno sempre la mania di mettere dei bastoncini in bocca e di dare da bere delle medicine disgustose. La dottoressa dalla quale i suoi genitori lo portano quel giorno, però, è diversa: è sorridente, non lo sveste e non usa nessun bastoncino. Gli fa fare alcuni giochi su un tappeto, lo fa camminare, poi scrive su un libricino con le pagine rosse. La dottoressa gli dice: “Ci vediamo presto” e a Filippo non dispiace. Filippo vedrà diverse volte quella dottoressa nei mesi successivi. A lui piace tanto, ma la sua mamma e il suo papà non sono contenti quando escono dall’ambulatorio e lo riportano a casa. Hanno sempre quelle facce preoccupate che gli hanno insegnato le maestre. Ha tre anni Filippo quando gli viene diagnosticata una rara e gravissima malattia degenerativa, con una prognosi infausta: i pochi casi registrati non hanno superato il sesto anno di vita. Filippo non sa che nome abbia la sua malattia. Non sa nemmeno di essere malato Filippo. Ma si accorge che fa fatica a camminare, mese per mese sempre di più, che il cibo che le maestre gli mettono nel piatto gli piace molto, ma fa tanta fatica a masticarlo; e quelle parole, quelle parole che lui ha tutte nella mente non riescono ad uscire dalla sua bocca. Filippo prova a spingerle fuori, ma loro non ne vogliono sapere. Allora prova a spingere quelle parole verso gli occhi, sperando che qualcuno le riesca a leggere. Poi arriva una maestra nuova. Filippo è molto felice perché questa maestra passa tanto tempo con lui durante la giornata: lo aiuta ad alzarsi dalla sedia, a camminare, a giocare. E poi è bravissima a leggere le parole dagli occhi. Lo guarda e riesce sempre a capire quello che sta pensando. E, quasi sempre, lo accontenta. Quella maestra nuova sarà lì ad aspettarlo l’anno successivo e anche quello dopo ancora, l’ultimo della scuola materna. La maestra aiuta Filippo ma anche gli altri bambini che si stanno preparando per andare alla scuola primaria: Filippo è un po’ geloso, ma tanto lo sa che lui è sempre il suo preferito. “Chissà se la mia maestra verrà con me nella scuola nuova?” pensa Filippo. La guarda e prova a chiederglielo con gli occhi: ma lei, per la prima volta, a quella domanda non risponde. E una profonda tristezza invade il suo cuore. Conosco Filippo e la sua famiglia durante l’anno di inserimento alla scuola dell’infanzia.  La diagnosi ha completamente distrutto la loro esistenza. Filippo, gradualmente, ha perso qualsiasi tipo di autonomia e di funzionalità: lo abbiamo guardato impotenti smettere di camminare, smettere di parlare e poi di emettere qualsiasi suono, smettere di mangiare. I periodi di ospedalizzazione sono divenuti negli anni sempre più frequenti e sempre più lunghi, portando, in diversi casi, anche ad interventi radicali: la predisposizione della PEG, per la nutrizione assistita, l’inserimento del catetere ed anche la tracheotomia. Filippo non ha mai varcato la soglia della scuola primaria. Le sue condizioni di salute, sempre più gravi, ed i suoi ricoveri in ospedale hanno portato la famiglia a scegliere, inizialmente, di prolungare la sua permanenza alla scuola dell’infanzia e poi di proseguire le cure a casa. La storia di Filippo è la storia di altri 35.000 bambini in Italia che avrebbero bisogno di interventi e cure palliative. Esse non si riferiscono solo alle cure che vengono somministrate nel fine vita, ma comprendono tutti gli interventi ed anche le progettualità che consentono ai malati terminali e cronici di vivere una vita il più possibile normale, a contatto con i contesti significativi per l’individuo anche in base all’età. Non sempre vengono fornite risposte adeguate a questi pazienti, soprattutto a quelli più piccoli. Il reparto di pediatria, spesso, non riesce ad accogliere e a curare adeguatamente bambini non più piccolissimi, ma ancora minori, che vengono dirottati nei reparti per adulti. Cosa significa questo per quei bambini e per le loro famiglie, che necessiterebbero, in momenti molto critici, di ancora più sensibilità, rispetto, personalizzazione degli interventi? Molti bambini con malattie croniche smettono di frequentare la scuola. E’ quello che è successo anche a Filippo. E i suoi occhi che parlavano ci hanno spesso raccontato quanto lui sentisse la mancanza delle voci dei compagni, delle carezze delle maestre, dei muri della scuola tappezzati di disegni. E’ importante investire in progetti a livello di sanità e di welfare, che si occupino della salute sociale e psicologica di questi pazienti, cittadini, persone?      Certamente. È importante investire in reparti di pediatria specializzati, in strutture paraospedaliere, in servizi infermieristici domiciliari e scolastici. Ma, allo stesso tempo, è anche importante investire sulla comunità. È necessario creare dei processi bottom-up, insieme ad una cultura delle cure palliative, che prevedano progettualità specifiche in base al bisogno. Queste, ad oggi, sono ancora lasciate al buon senso del personale scolastico, sanitario e sociale. E’ necessario sensibilizzare una società che ancora rivolge sguardi pietosi a chi invece avrebbe bisogno di quell’umana empatia che permette agli esseri umani di essere tutti sullo stesso piano: anche i bambini con malattie croniche, nella fase iniziale come in quella finale della vita, necessitano di socializzare e condividere spazi di quella normalità che viene loro negata. Ne hanno bisogno i bambini e ne hanno bisogno le loro famiglie. Filippo non è mai entrato a scuola, ma attraverso l’uso delle tecnologie ha potuto comunicare virtualmente con i compagni, attraverso video, audio, fotografie. Un educatore domiciliare, quella maestra che riusciva a leggere gli occhi di Filippo, ha curato molte attività e progettualità che sono state documentate e condivise con la famiglia e con la scuola. Si sarebbe ovviamente potuto fare di più. Si sarebbe potuto portare la scuola all’ospedale, curare momenti di interazione autentica, e non solo virtuale, con i compagni. Si sarebbe potuto coinvolgere la famiglia in un percorso psicologico di accompagnamento all’elaborazione del dolore ed alla paura della perdita. Sarebbe stato importante incrementare la presenza di personale educativo che potesse essere di maggiore supporto a Filippo e ai suoi genitori. Mi piace comunque  pensare che ogni piccola azione che è stato compiuta possa costituire una buona prassi per il futuro. In Italia solo il 10% dei bambini che necessitano di cure palliative ha accesso a progettualità dedicate ed idonee. Sono spesso inesistenti strutture intermedie tra l’ospedale ed il domicilio, soprattutto nei momenti, come accade per le malattie croniche, in cui entrambi questi contesti risultano inadeguati: l’ospedale in quanto luogo deputato alla terapia ed alla cura medica e la propria abitazione in quanto le famiglie si trovano poi sole nella gestione del loro bambino, dovendo affrontare il ruolo di genitore, infermiere, educatore, operatore sanitario. Sono ad oggi impensabili persino strutture che forniscano un sollievo alle famiglie, alleggerendole nel loro compito di cura che le divora fisicamente e psicologicamente. Viene spesso affidato ai protocolli ciò che dovrebbe invece essere stabilito e modulato flessibilmente incontrando lo sguardo delle persone, la loro sofferenza. In nome dei bilanci e dell’assenza di specializzazione vengono quotidianamente negati a dei minori, già profondamente segnati dal dolore, dei diritti umani fondamentali: il diritto alla socialità, all’istruzione, al ricevere cure adeguate circondati dall’affetto dei propri cari. La cura empatica sine die non può essere lasciata al buon cuore di chi decide di indossare i panni del lavoro sociale e sanitario, traducendolo in quotidiana relazione, senza che questo habitus riceva un mandato istituzionale. Ha dieci anni oggi Filippo. Sul suo lettino è stato montato un piccolo monitor, che costituisce la sola finestra dalla quale guardare il mondo: attraverso quello schermo guarda i cartoni, ascolta la musica ed i video messaggi che ogni tanto i suoi compagni di scuola gli mandano. Quei suoni così familiari gli piacciono, lo distraggono dal pensiero del dolore che i muscoli contratti, l’aspiratore ed il sondino gli provocano. Sembra lontanissimo quel primo giorno di scuola, così come il profumo della pasta al pomodoro della mensa, la festa di Natale insieme ai bambini, i travasi con la sabbia, lo scivolo del parco. Di tutto quello che è ormai nei suoi ricordi sono rimasti solo i suoi occhi e quelle parole che continua a farvi scorrere sopra. Si chiede quando arriverà un nuovo primo giorno di scuola, quando potrà soffiare di nuovo sulle candeline del suo compleanno, quando potrà leggere e scrivere come i suoi fratelli. Si chiede se invece dovrà continuare ad andare e venire dall’ospedale, se quelle cure continueranno a fargli così male, se esista un posto in cui poter fare le cose che fanno tutti i bambini. Un posto in cui anche la sua maestra possa venire, per insegnare agli altri bambini a leggere i suoi occhi. Ha paura Filippo: di restare solo, di perdere anche quel poco di normalità che gli resta, di vedere ancora piangere la sua mamma, che il giorno in cui tutto tornerà come all’inizio non arrivi mai. Si ricorda del giorno in cui con gli occhi aveva chiesto alla maestra se sarebbe stata con lui nella scuola nuova e non aveva avuto risposta. Si ricorda della paura che ha provato ed è la stessa che prova anche adesso. La paura gli fa sgranare gli occhi e cercare il suo sguardo. Lei è ancora lì, gli sorride e dolcemente gli dice: “Sono qui Filippo. Sarò sempre qui con te”.

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