Premessa

Paola Bastianoni, Gisele Ronga, Mauro Serio

Le rappresentazioni sociali del necroforo è il primo di tre capitoli espressamente dedicati alla descrizione dei risultati emersi dalla ricerca[1] finalizzata a delineare la percezione sociale dell’operatore funerario, così come l’autopercezione del proprio ruolo e i vissuti emotivi connessi alla professione, che è stata realizzata nell’anno 2018 da “Uno sguardo al cielo” (www.unosguardoalcielo.com) progetto che da anni vede la stretta collaborazione tra l’Università di Ferrara e le agenzie di onoranze funebri AMSEF e Pazzi.

La ricerca sugli operatori funerari, prima ed unica ricerca italiana sul tema, muove dall’esigenza di delineare l’identità della figura del necroforo, le specificità che la connotano, nonché le complessità che emergono dalla costante esposizione del professionista ad un contesto di dolore, offrendo possibili spunti di riflessione finalizzati a comprendere meglio le specificità di una professione che svolge un ruolo rilevante e significativo in un uno dei due momenti di transizione che accomunano universalmente l’esperienza umana: la morte e la nascita. Questa esigenza nasce dalla constatazione che sulla professione del necroforo, per quanto sia importante su un piano sociale e sia riconosciuta come tale, pesa ancora un retaggio culturale saldamente perpetuato in una società che tende a promuovere una falsa idea di benessere[2] e, in maniera complementare ma contrapposta, a negare il dolore e a evitare la morte attraverso il tentativo di prolungare indefinitamente la vita, demolendo e destrutturando ogni ritualità ad essa connessa nel tentativo di occultare e ridurre i tempi che contraddistinguono questo momento di passaggio[3] . In maniera ancora più esplicita si può affermare che la negazione della morte e la rimozione del dolore, o meglio la sua esorcizzazione, vengono spostate direttamente su questi professionisti attraverso rappresentazioni volte a stimolare un sorriso sarcastico, spesso promosso dalla cultura di massa, all’alto costo, però di svuotare il senso profondo, il  valore e il significato autentico del loro operato professionale che include, oltre alle pratiche legate al trattamento della salma e alle connesse procedure burocratiche, l’ accompagnare e sostenere con dignità, decoro e rispetto le persone in un momento intimo ed essenziale per l’elaborazione del lutto, e ciò per rendere socialmente accettabile un evento che invece si vorrebbe negare.[4]

Con questa ricerca, dunque, si è cercato di esplorare “oltre il fenomeno”, per dirla con Kant, i significati condivisi più autentici e specifici che si attribuiscono a queste figure professionali a partire dalla propria esperienza diretta o indiretta.

Questa finalità generale è stata tradotta in obiettivi specifici: a) comprendere quali fossero le principali rappresentazioni sociali condivise dalle persone estranee alla professione: i non-necrofori (oggetto di questo capitolo); b) individuare le modalità con cui gli operatori affrontano quotidianamente il dolore e si proteggono dallo stigma ancora presente in una società profondamente impreparata ad affrontare e ad accettare la morte come imprescindibile condizione umana (oggetto del capitolo successivo).

Su un piano prettamente metodologico, la ricerca si è dispiegata in due momenti principali:

I Fase: la raccolta dei dati, ossia delle opinioni, delle percezioni, delle rappresentazioni e dei vissuti degli operatori funerari, attraverso focus group a cui hanno partecipato gli operatori di entrambe le agenzie funebri sopra enunciate e attraverso interviste non strutturate ma dotate di una traccia che sono state rivolte sia alle persone estranee a questo lavoro, ossia alla cittadinanza sia a testimoni privilegiati, esperti del settore. Le singole interviste e i focus group sono stati poi trascritti verbatim al fine di procedere alla loro elaborazione.

II Fase: l’elaborazione dei dati attraverso programmi specifici di analisi testuale (ATLAS-T) sulle trascrizioni verbatim dei focus e delle interviste effettuate.

In totale sono state intervistate 86 persone, di cui 3 esperti e 83 non esperti; 9 necrofori che hanno partecipato a due focus group.

Aspetti metodologici e aree della ricerca

Il primo obiettivo perseguito dalla ricerca, come anticipato, si è focalizzato sulla ricostruzione della percezione, dei significati e delle connotazioni che le persone esterne a questo ambito di lavoro attribuiscono alla “figura dell’operatore funebre”, in modo da definirne, in sintesi, le relative rappresentazioni condivise.[5]

A questo scopo sono state realizzate 83 interviste non strutturate elaborate secondo una metodologia volta a porre in luce l’esperienza diretta o indiretta dei singoli intervistati, sia per ricostruire dal basso (bottom-up) la conoscenza relativa a questa figura e al servizio entro cui opera, sia per superare i bias che potrebbero derivare dalla descrizione generica di un mestiere soggetto a potenti stereotipie culturali.

Entrando nello specifico, le interviste sono state effettuate prevalentemente nella provincia e nel centro di Ferrara, ma anche a Napoli e Potenza, incontrando direttamente l’interlocutore generalmente in spazi pubblici; le interviste sono state registrate in formato video o in audio per poi essere trascritte verbatim in modo da poter effettuare una successiva elaborazione mediante programmi di analisi testuale (Atlas-T).

Il reperimento dei soggetti intervistati è avvenuto casualmente sulla base della loro disponibilità a rilasciare l’intervista. Le uniche due variabili tenute in considerazione per la strutturazione del gruppo sono: il genere e l’età. Stando al genere, gli intervistati risultano quasi equamente suddivisi tra maschi (39) e femmine (44 femmine); per quanto concerne l’età il gruppo degli intervistati è stato suddiviso a scopi euristici in tre fasce cronologicamente distinte: “i giovani” di età inferiore ai 28 anni (per un totale di 28 persone); “gli adulti” di età compresa tra i 28 e i 65 anni (per un totale di 38 persone) e gli “anziani” di età superiore ai 65 anni (per un totale di 17 persone). Il gruppo degli intervistati risulta pertanto così suddiviso in percentuale:

1^ fascia: età inferiore a 28 pari al 34% degli intervistati;

2^ fascia: età compresa tra 28 e 65 pari al 46% degli intervistati;

3^ fascia: età superiore a 65 anni pari al 20% degli intervistati.

Allo scopo di far emergere le opinioni personali, e in particolare, tenendo conto della delicatezza degli argomenti che ineriscono il ricordo della morte di un proprio caro, di un conoscente, di un parente, e cioè tutti quegli aspetti dolorosi e i riverberi emotivi che inevitabilmente sono chiamati in causa nella trattazione di questi temi, sono state condotte interviste non strutturate e in forma colloquiale seguendo una traccia aperta. Le interviste sono state condotte lasciando la massima libertà di espressione agli intervistati rispetto a temi proposti dall’intervistatore e attraverso un numero ridotto di domande stimolo. Riducendo al minimo l’asimmetria strutturale tra intervistatore e intervistato, si è cercato di favorire, attraverso un dialogo colloquiale e un ascolto attivo ed empatico, l’accoglienza dei contenuti e dei vissuti emotivi delle persone che hanno tematizzato i vari argomenti che via via sono emersi mediante le domande proposte. La traccia aperta in base alla quale sono state condotte le interviste è stata formulata con lo scopo di indagare le seguenti aree di interesse:

  1. La conoscenza relativa dell’operatore funerario, in riferimento alle funzioni e alle mansioni che svolge, in modo da ricavare, direttamente o indirettamente, la percezione generale del lavoro o la relativa rappresentazione; in maniera analoga si è indagata la percezione relativa al servizio.
  2. Le aspettative legate al lavoro degli operatori funerari e più in generale al servizio offerto dalle agenzie funebri, in relazione alla qualità percepita;
  3. Le opinioni relative alle caratteristiche degli operatori funebri, ossia quelle specificità che contraddistinguono queste figure professionali e che consentono di poter condurre questo lavoro. 
  4. Le motivazioni che spingerebbero alcune persone a intraprendere questo lavoro;
  5. La definizione della disponibilità personale e dei motivi (o delle persone più prossime all’intervistato) per cui si sceglierebbe di intraprendere o non intraprendere il lavoro come operatore funerario, al fine di intercettare la sussistenza di pregiudizi e stereotipi latenti, oppure giudizi negativi non direttamente verbalizzati, così come specifiche motivazioni e che alimentano le resistenze legate a questo lavoro.

Alla raccolta dei dati, ha fatto seguito l’elaborazione dei contenuti delle interviste secondo il modello della Grounded Theory;[6] in linea a questa metodologia si sono privilegiati in maniera pressoché esclusiva i significati che sono emersi dai dati empirici contestuali (ossia le opinioni, le percezioni ecc.)  per procedere poi alla loro generalizzazione e non viceversa. Nello specifico, al fine di concettualizzare i dati e di tradurli in rappresentazioni socialmente condivise, i singoli enunciati ricavati dalle interviste sono stati assemblati  e “codificati” in “unità di analisi” in base alla reciproca affinità semantica. 

In chiave esemplificativa sono riportati di seguito alcuni esempi di enunciati inclusi nella categoria “contatti con le agenzie funebri”:

Ho avuto a che fare poco tempo fa con le onoranze funebri per organizzare il funerale di mio zio, quando la mia famiglia si è occupata di quell’ambito li” [P50: 03326 giovane][7]

Ho avuto a che fare con le onoranze funebri quando è morto mio papà, e ci siamo trovate dall’oggi al domani a dovere andare ad un ufficio cimiteriale dove gli operatori cimiteriali ci hanno spiegato esattamente come doverci muovere” [P55: 03331 adulto]

“Ho avuto esperienze dirette con le onoranze funebri quando sono morti i miei genitori; sono entrambi morti in ospedale perciò io li ho visti morire ma poi hanno pensato a tutto loro” [P81: 03357 anziano]

I risultati della ricerca

La presentazione dei risultati, come si evince dalla tabella successiva (tabella 1) parte dalla  descrizione dei termini  associati alle diverse aree di indagine.

Tabella 1- Le principali rappresentazioni condivise relative ai temi della ricerca

La percezione del lavoro

Il lavoro dell’operatore funerario da parte degli intervistati è percepito principalmente come:

– Delicato, particolare

– Duro, difficile, faticoso

– Un lavoro come un altro

Nello specifico, il 39% degli intervistati che definisce questo lavoro come delicato o faticoso, sostiene anche che quest’attività sia da ritenersi utile su un piano sociale.

Come per le altre aree oggetto di indagine, non tutte le affermazioni codificate relative alla percezione del lavoro hanno la stessa frequenza, poiché alcuni intervistati rispetto ad altri hanno posto maggiore attenzione ad alcuni ambiti di piuttosto che ad altri e i totali ovviamente non corrispondono al numero degli intervistati in quanto ogni intervistato può aver fatto nessuna affermazione o una affermazione per ogni tipologia di codifica relativa al tema “LAVORO”, ovvero può averlo considerato “Delicato, particolare” e “Utile, importante” e “Una attività economica”, ecc.   Nello specifico, le affermazioni codificate nel tema “percezione del lavoro” sono state 101, 46 effettuate da intervistati di genere femminile e 55 da intervistati di genere maschile. Come riportato nel grafico successivo (Grafico n. 1), il 35% degli intervistati ritiene che il lavoro dell’operatore funerario è “Duro, difficile, faticoso”, mentre il 39% lo ritiene un lavoro “Delicato, particolare” e “Utile, Importante”.  Il restante 9% degli intervistati sottolinea che questo lavoro sia semplicemente da ritenersi come una “Attività economica”, alludendo a comportamenti spiacevoli esperiti durante una situazione dolorosa.

Grafico 1 -Percezioni dell’operatore funerario

Entrando nel merito delle interviste, il 39% di coloro che ritengono che il lavoro dell’operatore funerario sia “Utile” (analogamente a “Delicato, particolare”, si veda il Grafico n.1), sostiene che il valore di questo lavoro sia da ricondursi all’utilità sociale che riveste. Nello specifico, è un’attività ritenuta utile per l’altro piuttosto che per sé stessi, in quanto gli operatori funerari svolgono una vera e propria funzione di aiuto o di sostegno ai dolenti attraverso gli aspetti pratici del loro lavoro. Questi concetti si esprimono pienamente, per esempio, con le parole di una delle persone adulte intervistate:

“Penso sia un lavoro necessario e che come tutti i servizi necessari ha un valore.  Ha valore perché si occupa di una situazione non piacevole ma che va gestita. Chi svolge questo lavoro, svolge un’attività per te e forse neanche tanto piacevole per lui” [P66: 03342 adulto m.doc Codes: 312.Utile, importante – Family: LAVORO].

Questo lavoro, stando agli intervistati, può dunque essere ritenuto come una professione di aiuto, che ha in sé una componente altruistica, poiché di fatto, coloro che operano in questo ambito, con la loro competenza, sgravano le persone che attraversano un momento delicato dalle incombenze pratiche che passano in secondo piano; a questo proprosito, un giovane intervistato così si esprime:

“Si…si… sicuramente è una cosa che non ti capita mai di pensare, nel senso che effettivamente non è una cosa a cui pensi, che ci sono quelle persone che in quel contesto ti aiutano, però in realtà se ci pensi: menomale che ci sono quelle persone nelle cose più pratiche che non sono cose a cui pensi in quel momento. Quindi menomale che c’è qualcuno in grado e capace di farlo”. [95: 03404 giovane f.doc – Codes: 312 Utile, importante – Family: LAVORO].

Analogamente al tema dell’Utilità, in termini di frequenza, il 39% delle affermazioni su questo argomento definiscono il lavoro come “Delicato, particolare” (si veda il Grafico n.1) in funzione del contesto emotivo in cui un operatore funebre opera. L’esposizione costante al dolore è una peculiarità, secondo gli intervistati, che rende il lavoro dell’operatore funerario diverso, o comunque, non identificabile a qualsiasi altro mestiere che, invece, si caratterizza per l’assenza di un potenziale coinvolgimento emotivo. Per questa caratteristica si ritiene che questo non sia un mestiere che chiunque possa svolgere; più nello specifico è una particolare attività che non si esaurisce solo su un piano operativo e per tanto richiede un particolare temperamento (l’operatore funerario dovrebbe essere “freddo, distaccato”), o comunque caratteristiche specifiche (di frequente definite come “capacità”) per poter condurre al meglio e armonizzare gli aspetti pratici, il rapporto con i dolenti e i riverberi emotivi in cui inevitabilmente sono implicati coloro che entrano quotidianamente in contatto con la morte. Per esempio, si legge:

“Penso che chi faccia questo lavoro debba avere una certa freddezza nei confronti della morte, la capacità di entrare nelle famiglie con una grande delicatezza, perché chi subisce una perdita molto spesso si trova in una situazione di dolore molto grande, poi deve sapere presentare tutti i vari passaggi, quelli amministrativi, le carte, la scelta della bara e delle altre cose, come un qualcosa che faccia parte di quel momento, mantenendo una estrema delicatezza”. (P67: 03343 adulto f.doc – Codes:           [311 Delicato, particolare – Family: LAVORO]).

Oltre l’esposizione costante al dolore, una seconda “specificità” di questo lavoro è definita in base alla trasmissione informale delle esperienze e delle conoscenze operative direttamente apprese sul campo; ciò rendere questa attività non identificabile ad ogni altra attività lavorativa; piuttosto, agli occhi degli intervistati, il lavoro del necroforo è affine a tutti quei mestieri di “nicchia” che si apprendono solo attraverso una dimensione pratica, manuale, esperenziale. Coloro che sono introdotti in questo ambito lavorativo non sono dunque supportati da percorsi di formazione comuni o di tipo teorico. Questa caratteristica, per esempio, emerge dall’opinione di un giovane intervistato, il quale si esprime dicendo che:

“Quello delle onoranze funebri di certo è un lavoro abbastanza fuori dal comune, cioè, appartiene ad una serie di lavori che impari a farli solo se ti rivolgi a quei posti dove lo fanno; cioè non c’è un’università che ti insegna, è una cosa un po’ di nicchia, tipo un lavoro di artigianato, se lo vuoi imparare devi fartelo insegnare da chi lo fa. (P44: 03315 giovane m.doc – Codes: 311 Delicato, particolare – Family: LAVORO).

Nelle interviste in cui è presente il riferimento alla formazione dell’operatore funerario, non si tende solo a sottolineare il carattere “artigianale” del mestiere, ma è anche riconosciuta con forza la necessità di introdurre strumenti di supporto, ossia dei dispositivi volti a tutelare queste persone dai vissuti dolorosi a cui sono costantemente esposti. E’ dunque posto in rilievo dagli intervistati che questa conoscenza pratica ma “tacita”, sebbene renda abili queste persone a condurre sul piano operativo le varie mansioni conformi al ruolo, rischia di lasciare sul piano del non dichiarato l’universo emotivo che inevitabilmente è sollecitato dai contesti di forte dolore in cui sono coinvolti gli operatori funerari. La mancanza di strumenti efficaci a riconoscere, decodificare ed elaborare le emozioni di dolore viene dunque compensata dalle caratteristiche personali o dall’atteggiamento di “distacco”/”distanziamento” dalla sfera emotiva che risulta essere una delle parti sostanziali sebbene non tangibili del loro lavoro.

Il riferimento ai vissuti emotivi è un aspetto ricorrente anche nella parte delle interviste che definiscono questo lavoro come “Duro, difficile, faticoso” (il 35% degli intervistati). Il file rouge, infatti, tra le due principali prospettive di lettura del lavoro dell’operatore funebre (“delicato, particolare” e “duro, difficile, faticoso”) è rappresentato dal tema della capacità di resistere al costante coinvolgimento nel dolore altrui. Oltre a questo aspetto, nello specifico, le difficoltà di questo lavoro, sono anche definite dagli intervistati in funzione dalla dimensione tattile e il contatto con i corpi dei defunti. Questo lavoro, nell’ottica degli intervistati, sarebbe tanto più difficile, faticoso e duro, quanto più risultano essere spiacevoli i casi di morte, e cioè: le morti “innaturali” rispetto al decorrere della vita, ovvero le morti precoci dei bambini; le morti che avvengono in circostanze inaspettate e ad alto impatto emotivo; oppure, nel caso dei decessi di persone che lasciano impresse immagini shoccanti per chi se ne “occupa/se ne prende cura” durante i funerali, ovvero quelle morti che richiedono una manipolazione particolare e non ordinaria dei corpi; quest’ultimo è il caso delle morti causate da una malattia prolungata che ha compromesso fortemente i corpi, o degli incidenti stradali in cui i corpi sono irriconoscibili e deturpati. Esemplificano quanto detto le parole di un giovane intervistato, il quale, pensando a questo lavoro sostiene che:

“La sfera affettiva e psicologica, penso, sia la parte più difficile del lavoro. Poi c’è anche la parte che riguarda il contatto con la persona morta che può essere molto macabro e se qualcuno non è portato per questo lavoro sicuramente non lo reputa un lavoro facile”. P51: 03327 giovane m.doc – Codes: [315 Duro, difficile, faticoso – Family: LAVORO].

Seppur in frequenza minore (9%), non mancano affermazioni che tendono a identificare il lavoro dell’operatore funebre ad un’attività economica al pari di qualsiasi altra (si veda la Figura n. 1), sottolineandone talvolta la dignità e la professionalità, l’abitudinarietà o l’aspetto lucroso e strumentale che risulta sgradevole se letto in rapporto al contesto di dolore in cui operano i necrofori. Secondo questi ultimi, la finalità di questo lavoro sarebbe intendersi solo in funzione del guadagno, al pari di qualunque altro

“…commercio… è un commercio… È come un rappresentate che va a vendere la pasta, che va a vendere, che ne so, delle finestre. È un commercio. Io ti propongo un materiale che io ho e tu lo compri. È un commercio quello lì”. P103: 03412 adulto m.doc – Codes: [317 Una attività economica – Family: LAVORO]

Per il secondo sottogruppo di gruppo di intervistati che legge prevalentemente su un piano economico questa attività, inoltre, quella del necroforo potrebbe essere definita al pari di qualunque altra attività lavorativa (è un “lavoro come un altro”), in forza dell’abitudinarietà e della continuità nel tempo a svolgere questa occupazione, nonostante l’ambito specifico di cui ci si occupa. A riguardo, è emblematica l’opinione di una delle intervistate che si esprime dicendo: 

“Il loro lavoro per me non è un lavoro come tanti altri, ma per chi lo fa, penso che col tempo diventi un lavoro normale, come per me era fare la sarta. È un lavoro di cui non si ama parlare, soprattutto alla mia età”. [P59: 03335 anziano f.doc – Codes: 316 Un lavoro come un altro – Family: LAVORO]

Coloro che ritengono che questo lavoro sia un’attività economica al pari di qualsiasi altra attività lavorativa, infine, non mancano di riconoscere la professionalità degli operatori funerari, che deriverebbe, stando alle parole degli intervistati, dalla dignità che riescono a restituire ai dolenti. Pertanto, pur riconoscendo gli aspetti negativi di questo lavoro, e cioè, il coinvolgimento in un contesto di dolore, il contatto con i corpi, la trattazione di un tema di cui “non si ama parlare”, gli intervistati individuano:

“Gli aspetti positivi sono che chi fa questo mestiere normalmente svolge bene questo lavoro delicato e difficile; bene nel senso, per quelle poche situazioni che ho visto io, che sono persone che svolgono in modo dignitoso un compito difficile e anche in modo professionale, con una buona professionalità.P66: 03342 adulto m.doc –  Codes:   [313 Dignitoso, professionale – Family: LAVORO]. 

“Oggi è cambiata una cosa molto importante, si è preso coscienza che anche la morte non è qualcosa di avulso: tanto la persona è morta, ma deve avere la sua dignità come la sepoltura. Fare in modo che la persona, portata al cimitero, abbia da parte del corteo e delle persone che la seguono, una dignità composta, così com’è composto il corteo per una sposa. Anche in quell’occasione, ci si deve comportare con dignità….” [P89: 03205 anziano m.doc – Codes: 313 Dignitoso, professionale – Family: LAVORO].

Quest’aspetto, accanto al sostegno emotivo e pratico, come successivamente verrà argomentato, sono espresse dagli intervistati come aspettative legate al ruolo dell’operatore funerario.

Per riassumere i concetti esposti, sono state tradotte le principali affermazioni degli intervistati in forma grafica, come si può osservare dalla figura successiva (Fig. n. 1)

Figure 1 – Che tipo di lavoro svolgono

Le aspettative legate al ruolo

La seconda area di interesse della ricerca, concerne le aspettative legate al ruolo, rispetto alla quale emergono tre aree semantiche principali, come riassunto dal grafico successive

Grafico 2 – Aspettative legate al ruolo

Per quanto concerne le aspettative legate al ruolo, gli intervistati si sono espressi preminentemente attraverso l’esigenza di veder corrisposta attenzione e empatia (47%) da parte degli operatori funerari nei confronti dei dolenti; l’attenzione, la comprensione e il riconoscimento su un piano empatico del dolore, del disagio, del momento traumatico che si attraversa durante il lutto sono identificate come forme di rispetto e sostegno che ci si attende da coloro che operano in questo ambito. Per esempio, si legge:

In merito a ciò che ci si aspetta da un operatore funebre, “Penso che la prima cosa sia il rispetto di quello che sta avvenendo. Di non presentarsi la come un burocrate che deve fare un lavoro ma come qualcuno che cerca di sostenere questo momento”. P109: 03418 adulto m.doc – Codes: [324 Discrezione dignità rispetto – ASPETTATIVE].

“Io da un operatore funebre mi aspetto che si sforzi di comprendere il disagio che una persona in quel momento può avere, perché anche se per lui ormai quello è un lavoro, per il cliente/parente che si rivolge a loro per la perdita di una persona è comunque un momento traumatico. P65: 03341 adulto f.doc – Codes: [325 Attenzione, empatia – Family: ASPETTATIVE]

Passando dal piano relazionale a quello pratico, ci si attende anche una forma di sostegno/supporto da parte degli operatori funerari legata alla possibilità di delegare le incombenze pratiche legate al rito e alla cerimonia (17%), che permetterebbe ai dolenti di concedersi il tempo necessario a elaborare le prime fasi del lutto.

Io mi aspetterei che pensasse a tutto lui, non mi aspetterei comprensione, quella deve venire dai miei parenti. Da lui mi aspetto un aiuto perché proprio non ho idea da dove si cominci per fare tutte quelle cose. Se ho bisogno di aiuto psicologico vado da uno psicologo. Io mi rivolgo un operatore funebre perché ho bisogno di assolvere delle pratiche che non saprei da dove parte cominciare, poi sicuramente lui lo deve fare con una certa sensibilità. [P72: 03348 adulto m.doc – Codes:         327 Essere sgravato da incombenza – ASPETTATIVE]

Altra aspettativa che gli intervistati hanno espressamente verbalizzato (36%) è da identificarsi al decoro, alla dignità e al rispetto, ossia tutto quell’ambito di significati taciti o impliciti ma sostanziali legati all’attenzione e alla cura dei dettagli anche estetici che rendono nel complesso questo momento maggiormente accettabile ed emotivamente tollerabile, proprio perché restituiscono valore alla persona defunta e ai parenti. Infine, in riferimento all’atteggiamento degli operatori funebri, un’aspettativa comune riguarda il carattere discreto e non invadente della loro presenza. Rispetto a questi temi, è emblematica l’affermazione di un giovane intervistato, il quale nota, parlando delle apsettative legate a questa professione che:

“A differenza di una volta che quando una persona moriva gli si scavava una buca e gliela si buttava dentro e basta, oggi grazie agli operatori funebri, si fa un percorso che rende tutto un po’ più “bello”, cioè fai il funerale, fai la processione verso il cimitero; in pratica si rende tutto un po’ più decoroso, si fa in modo di dare l’ultimo saluto ad una persona nella maniera migliore. Credo che questo sia anche l’obiettivo di chi fa questo lavoro.” [P63: 03339 giovane m.doc – Codes: 324 Discrezione dignità rispetto – ASPETTATIVE].

Queste definizioni possono essere espresse in forma grafica attraverso la seguente immagine (Fig. 2):

Figure 2 – Aspettative legate al ruolo

Durante l’analisi delle interviste, si è notato che per quest’aria oggetto della ricerca, più delle altre, una suddivisione per genere ed età degli intervistati rispetto alla definizione delle aspettative:

relativamente al genere il 54% persone di sesso femminile esprimono una aspettativa relativa ad “Attenzione, empatia” su un totale del 47%. Gli adulti, inoltre, esprimono questa aspettativa per il 70% rispetto al 47% del totale di persone che hanno espresso questa aspettativa.

Forse è interessante notare che il 45% dei giovani che si sono espressi e il 63% degli anziani si collocano significativamente sopra il 36% del totale complessivo che ha espresso l’aspettativa “Discrezione, dignità, rispetto”. Inoltre il 27% dei giovani e il 19% degli anziani hanno espresso aspettative di  “Essere sgravato da ogni incombenza” si collocano sopra il 17% del totale.

Pur rimanendo nell’ambito puramente descrittivo possiamo ritenere che esista la probabilità che un giovane o un anziano si aspettino un servizio dignitoso, discreto e “chiavi in mano” mentre un adulto, in particolare se donna, si possa con più probabilità aspettare un servizio particolarmente attento alla relazione e al rispetto del proprio dolore.  

Le caratteristiche dell’operatore

Gli intervistati definiscono le caratteristiche che possiede o che dovrebbe possedere una persona per intraprendere il ruolo di operatore funerario prevalentemente in funzione di quattro contenitori semantici (si veda il Grafico n.3): “equilibrio e distacco” (49% degli intervistati); Ascolto, rispetto e sensibilità” (38%); discrezione e decoro (11%); “predisposizione e vocazione” (3%).

Grafico 3 – Caratteristiche dell’operatore

Tenendo in considerazione i contenuti delle interviste, è possibile notare che queste caratteristiche vengono prevalentemente ricondotte o agli aspetti legati al comportamento e all’atteggiamento, oppure, agli aspetti individuali o caratteriali.

Equilibrio e distacco, predisposizione e vocazione sono riconducibili agli aspetti caratteriali o individuali; in questo caso gli intervistati tendono a sottolineare e a conferire un aspetto di “eccezionalità” rispetto alla norma alle persone che riescono a condurre questo lavoro in base a “caratteristiche” personali che consentono ad alcuni, piuttosto che ad altri, e comunque non a tutti, di poter svolgere questo lavoro. Si legge ad esempio che:

“…un operatore funebre deve essere abile a fare il proprio lavoro fatto bene, in questo ambito, riuscendo a distaccarsi da tutto; secondo me questo (la capacità di assumere un atteggiamento di distacco) è una cosa fondamentale, perché poi puoi essere bravo a fare il truccatore o a portare la bara, ma queste sono cose che acquisisci, cioè possono imparare a farle tutti, essere distaccati invece non penso sia cosa da tutti”. P63: 03339 giovane m.doc – Codes: [371 Equilibrio distacco – Family: OPERATORI].

Quindi:

 “Sicuramente per fare questo mestiere devi essere in grado di estraniarti da quello che è l’aspetto della morte e da quello che è l’aspetto di una persona morta, devi riuscire a staccarti con la testa da quello che stai facendo. Però pensandoci è difficile da dire, cioè è un mestiere che possono imparare ma poi non so se tutti sono portati per farloP72: 03348 adulto m.doc – Codes: [371 Equilibrio distacco – Family: OPERATORI].

Analogamente, si sostiene che chi svolge questo lavoro abbia una “predisposizione” personale per maneggiare quest’ambito che consente ad alcune persone di “sopportare” l’impatto emotivo che questo lavoro comporta:

“Penso che per questo lavoro serva una predisposizione un po’ particolare, bisogna saper essere freddi distaccati, però allo stesso tempo se mi chiedi come dovrebbe essere un operatore funebre, ti risponderei non troppo freddo e distaccato quindi, non saprei dire come bisogna essere per fare questo lavoro. P73: 03349 anziano f.doc – Codes:        [Avere predisposizione, vocazione – OPERATORI].

Quindi,

“secondo me devi avere una dote personale che probabilmente ti spinge a sopportare meglio, ad affrontare meglio determinate situazione. Penso anche ad altri tipi di lavori, che hanno questo tipo di impatto, penso a dei medici, penso a chi lavora in carcere, a cose di questo tipo. Devi esserci un po’ portato per un lavoro di questo tipo. P100: 03409 giovane m.doc – Codes: [Avere predisposizione, vocazione   OPERATORI]

Passando dal piano personale a quello del comportamento, gli intervistati leggono gli operatori funerari come persone che devono avere l’abilità di rapportarsi in maniera differenziata con le persone e i contesti con cui entrano in contatto. A riguardo, si legge ad esempio che un operatore deve dimostrare con il proprio comportamento:

“…delicatezza e discrezione assoluta, un grande rispetto per le persone che stanno soffrendo, non deve sottovalutare le persone perché ogni persona soffre a modo suo con diverse sensibilità”. P69: 03345. adulto f.doc – Codes: [372 Ascolto rispetto sensibilità – Family: OPERATORI];

Quindi, un operatore funebre è colui che riesce a decodificare i bisogni espliciti e impliciti delle persone, e modulare di conseguenza il proprio comportamento: 

“deve avere la sensibilità e l’intelligenza per capire che delle volte deve essere pratico e distaccato, con alcune persone, e con altri più sensibile; deve riuscire a capire chi ha davanti e di cosa ha bisogno” P75: 03351 anziano f.doc – Codes:    [372 Ascolto rispetto sensibilità – Family: OPERATORI].

La rapprentazione grafica di quanto fin ora è stato esposto è sintetizzata nella figura successiva (Fig. n. 3),

Figure 3 – Caratteristiche dell’operatore

Gli aspetti motivazionali del lavoro

“Comunque le principali motivazioni per cui si sceglie di fare questo lavoro penso sia dovuto a esigenze lavorative. Penso siano pochi quelli che lo fanno perché hanno passione per questo lavoro, ma non è detto sia così. P45: 03316 adulto f.doc – Codes: [335 Per necessità – MOTIVO DELLA SCELTA].

Questa frase, è posta in esordio perché sintetizza quanto emerge dalle interviste in merito al tema delle motivazioni, come sintetizza il grafico successivo:

Grafico 4 – Motivazioni della scelta del lavoro

Nella maggior parte delle interviste emerge con forza l’idea che questo lavoro dipenda più che da una libera scelta da una serie di motivazioni eteronome.  Le motivazioni che spingono le persone a intraprendere questo lavoro sono riconducibili prevalentemente ad una necessità (39%), dettata per esempio  dall’assenza di alternative, come si legge nell’affermazione seguente:

“Conosco anche un’altra persona che per un po’ ha fatto questo lavoro perché non trovava altro. Non penso ci sia nessuno che lo faccia per passione. P55: 03331 adulto f.doc – Codes: [335 Per necessità – MOTIVO DELLA SCELTA].

Accanto alla necessità economica, la continuità dell’attività di famiglia (34%) è la seconda motivazione identificata dagli intervistati in termini di frequenza. Per una tradizione familiare si sceglierebbe di intraprendere questa  particolare attività, in forza della quale (abitudine, crescita in un’ambiente precipuo) questo lavoro è normalizzato e/o parificato ad altri mestieri:

“Non so perché una persona possa scegliere di fare questo lavoro, tutti quelli che conoscono che fanno questo lavoro portano avanti la tradizione di famiglia, quindi penso lo facciano anche perché essendo un lavoro di famiglia, cresci con questo mestiere e in questo ambiente, quindi poi non ti sembra più una cosa strana.” P38: 03309 adulto f.doc – Codes: [334 Attività famigliare – MOTIVO DELLA SCELTA].

Chi invece fa riferimento all’aspetto economico, tende a identificare la motivazione che sottende la scelta di questo lavoro alla sicurezza di una sfera economica “fatta di ricariche”, un ambito che non conosce crisi data l’inevitabilità della morte (24%). Un intervistato giovane così si esprime a riguardo:

“Non so dire perché le persone facciano questo lavoro oltre al fatto che forse è retribuito molto bene. P40: 03311 giovane f.doc Codes:[ Sicuro  ben retribuito – MOTIVO DELLA SCELTA].

Quindi,

“Secondo me chi fa questo lavoro oltre al fatto che sicuramente è un lavoro sicuro ed economicamente positivo, penso che comunque debba piacere, se no non lo si fa. Deve esserci una componente tua, che te la devi sentire, perché oltre al fatto che è ben pagato e che il posto è difficile perderlo, deve essere una cosa che ti devi sentire dentro, non so dire cosa, perché io sicuramente non ce l’ho e non lo andrei mai a fare. P43: 03314 adulto f.doc Codes:[ Sicuro  ben retribuito – MOTIVO DELLA SCELTA].

In percentuale ridotta (4,5%), invece, gli intervistati che identificano la passione e la vocazione alla motivazione, sottolineano maggiormente la libertà nella scelta di questo lavoro, seppur da intendersi come “particolare”, perché emerge con forza, anche in questo caso, l’idea secondo cui sia necessaria una “dote” particolare, ovvero il “distacco” dovuto ad una predisposizione perosonale:

“Una persona non ha problemi a farlo, magari è una persona fredda di suo, perché per fare questo lavoro ci vuole un certo tipo di carattere, non ti deve fare schifo niente, devi essere molto freddo, fermo e distaccato”. P62: 03338 adulto f.doc – Codes: [336 Per passione, vocazione – MOTIVO DELLA SCELTA]

“Per esempio la persona che conosco che fa questo lavoro lo fa proprio volentieri e se la sente di fare questo tipo di cose, non gli da fastidio l’avere a che fare con persone morte, anzi è lui che le trucca, le prepara e le veste quindi penso ci sia proprio una sorta di predisposizione caratteriale per fare questo lavoro. Questa persona ha iniziato a fare questo lavoro perché voleva farlo e non perché magari ce l’aveva già in famiglia”. P70: 03346 adulto f.doc – Codes: [336 Per passione, vocazione – MOTIVO DELLA SCELTA].

Dalle aggregazioni semantiche è possibile, sintetizzare quanto fin’ora esposto in base a questa mappa concettuale:

Figure 4 – Motivi della scelta del lavoro

Disponibilità ad effettuare questo lavoro e resistenze degli intervistati

La quasi totalità degli intervistati non intraprenderebbe questo lavoro (86%), sebbene non si evincano pregiudizi; piuttosto, le resistenze relative alla scelta di questo lavoro sono riconducibili Timore, o fastidio della morte o del “contatto” con i defunti o al Timore di essere coinvolti nel dolore dei familiari che hanno subito una perdita irreversibile. Stando alle parole degli intervistati, si legge che:

“Io non farei mai questo lavoro perché starei male tutte le volte”. P36: 03307 giovane f.doc – Codes: [306 NON lo farebbe – DISPONIBILITA].

“Non farei questo lavoro perché sono una persona molto fragile e appena vedo qualcosa di triste mi viene da piangere, quindi non avrei mai potuto fare questo lavoro”. P46: 03322 anziano f.doc – Codes:   [306 NON lo farebbe – DISPONIBILITA].

“Io non farei mai questo lavoro, mi darebbe troppo fastidio e mi farebbe schifo toccare i morti. Forse riuscirei a rapportarmi con i parenti, ma temo che a lungo andare tutto il dolore che si deve affrontare mi avrebbe logorato, non so se avrei potuto reggere”. P55: 03331 adulto f.doc – Codes: [306 NON lo farebbe – DISPONIBILITA]

Rispetto alle persone che invece accetterebbero di fare questo lavoro, ritornano due aspetti già presenti ed evidenziati dagli intervistati in riferimento alle motivazioni, e nello specifico l’aspetto della necessità economica (mancanza di alternative), oppure il tema del timore/fastidio della morte e il timore del coinvolgimento nel dolore dei cari:

“Se non avessi nient’altro da fare lo farei senza problemi, se devo dare da mangiare alla mia famiglia e non ho altre alternative lo faccio, però sicuramente non è un lavoro che vado a cercare”. P68: 03344 adulto m.doc – Codes:   [305 Lo farebbe – DISPONIBILITA].

“Non lo so non ci ho mai pensato ma forse sì, lo avrei potuto fare, non ho mai avuto paura dei morti, ho sempre avuto una certa curiosità verso di loro e non mi da fastidio toccarli, quindi per ciò che riguarda il morto, penso non avrei avuto grandi difficoltà. Per quanto riguarda il lato personale ed emotivo non sono sicura di come sarei stata, comunque penso che avrei potuto provare”. P75: 03351 anziano f.doc – Codes:[305 Lo farebbe – Family: DISPONIBILITA]”.

Riflessioni su questa parte di ricerca.

   “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”. Edoardo De Filippo

La frase attribuita ad Edoardo De Filippo appare una buona rappresentazione dell’attuale situazione relativa allo stigma che ancora tocca gli operatori funebri. Dalle interviste emerge chiaramente come questa attività sia utile, importante, dignitosa, delicata e come agli operatori siano richieste qualità, sensibilità, capacità relazionali e competenze professionali significative. Purtroppo esiste un retaggio culturale che porta a stigmatizzare chi fa questo lavoro e a considerarlo come un portatore di sfortuna, con vari gesti connessi dai più pii, come il segno della croce al passaggio di un’auto funebre, a quelli più comuni come fare le corna, toccare ferro a quelli più volgari come toccarsi le parti intime per gli uomini.

La ricerca individua altri aspetti più sottili e per questo anche più insidiosi rispetto alle plateali manifestazioni di scongiuri prima citate. Ritornando alla definizione di stigma come attributo socialmente indesiderabile, possiamo notare che emergono aspetti di questo tipo nelle risposte degli intervistati, principalmente riguardanti il fatto che per fare questo lavoro occorrono persone particolari con attributi che le rendono insensibili al dolore dei parenti, alla paura della morte, al fastidio per il corpo dei morti, al disgusto della decomposizione dei cadaveri.  Ma questi attributi sono quelli di una persona normale? (Normale inteso nell’accezione di Goffman citata nella premessa.)

“Persino il bambino, persino il «primitivo», persino lo schiavo, come dice Euripide, pensano alla morte e ne hanno orrore. Un orrore al tempo stesso fragoroso e silenzioso, che rispunterà con il suo doppio carattere per tutto il corso della storia umana.” E. Morin[8]

Non sono attributi di una persona normale perché, nella visione delle persone normali, queste  soffrono di fronte al dolore di parenti, hanno orrore della morte, si allontanano drasticamente dai corpi delle persone defunte e sono disgustati dai cadaveri in decomposizione. Quindi gli operatori funebri sono persone con attributi fuori dalla norma che li pongono a rischio di stigmatizzazione sia positiva – eroi che hanno alleviato il nostro momento di dolore, quindi dei super umani – che negativa – persone che sono o sono diventate insensibili, hanno cioè perso un tratto fondamentale di quello che consideriamo essere umani, insomma dei sub umani. Queste due visioni convivono nelle interviste e convivono anche nei racconti degli operatori raccolti nei focus group. Si fa questo lavoro perché fa parte di un destino famigliare o perché, per poter mantenere la famiglia, non si ha altra possibilità, ma nello stesso tempo si fa affidamento su questi professionisti per poter essere aiutati ad attraversare un momento particolarmente doloroso della vita, professionisti che devono possedere competenza, capacità, sensibilità.

Cosa potrebbe quindi distinguere un operatore funebre oggetto di stigmatizzazione da un anatomopatologo oggetto di rispetto? Ci ha colpito che in alcune interviste le persone hanno espresso la convinzione che per fare bene questo lavoro sarebbe necessaria una formazione specifica, oppure che abbiano sottolineato la mancanza di qualsiasi presupposto di scolarità o formazione per svolgere il lavoro. Una ipotesi che può essere considerata è che, dal lato dell’operatore funebre, abbiamo un individuo che nelle norme e nella visione dei normali non ha particolari percorsi educativi e formativi, pertanto per fare quel lavoro sono necessari solamente attributi personali – carattere, sensibilità, ecc. Mentre l’anatomopatologo è persona che può essere considerata completamente umana, sensibile, timorosa della morte, ma che si sottopone ad una formazione dura e faticosa per poter svolgere un lavoro tanto delicato quanto terribilmente difficile: avere a che fare con il dolore dei parenti,  la morte, i morti e la decomposizione. Le sue capacità non sono una caratteristica personale che lo rendono super uomo o sub umano, ma delle abilità apprese che lo mantengono a tutti gli effetti nella cerchia delle persone completamente umane, quindi non stigmatizzabile. Nei romanzi di Alessia Gazzola, medico legale, la protagonista specializzanda in anatomia patologica,, Alice Allevi, è una ragazza timida, delicata, pasticciona, simpatica. Di lei si narrano le vicende nell’Istituto di Anatomia Patologica, le autopsie, le macabre scoperte, gli innamoramenti, le amicizie e le vicende famigliari. Si narra in tutto e per tutto la vita e le avventure di una ragazza normale.

Riteniamo che alcuni processi in atto come gli interventi formativi, l’evoluzione delle imprese funebri e anche l’inserimento di personale femminile potranno avere effetti positivi rilevanti anche sulla stigmatizzazione del lavoro dell’operatore funebre. Mentre gli intervistati mettono in rilievo gli aspetti di relazione e di rispetto nell’intervento degli operatori, ancora questi aspetti sono relegati ad un apprendimento, come sottolinea uno degli intervistati, di carattere artigianale, come l’apprendista di bottega. La stessa visione è stata più volte riportata dagli operatori dei focus group: questo è un lavoro che non si può apprendere in formazione, bisogna solo farlo. Fintanto che l’accento continua ad essere messo sulla capacità di resistere al disgusto del corpo morto e forse straziato, mentre passa molto in secondo piano la capacità di interagire positivamente con le persone addolorate per la perdita di un caro, la professione continuerà ad essere vista come un lavoro per uomini rudi, super eroi o menomati di sensibilità, che saranno facilmente oggetto di stigmatizzazione. Probabilmente rimanere all’interno di questi “recinti culturali” fungerà da ostacolo all’evoluzione positiva della professione.

Opere citate

Ariès Philippe, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Roma: Laterza 1980

Goffman Erving, Stigma. L’identità negata, Verona: Ombre Corte 2003

Latouche Serge, La scommessa della decrescita,  Milano: Fentrinelli 2007

Morin Edgar, L’uomo e la morte, Trento: Edizioni Centro Studi Erickson  2017

Normann Richard, La gestione strategica dei servizi, Milano: ETASLIBRI 1985

Tarozzi Massimiliano, Cos’è la Grounded Theory, Roma:Carrocci 2008

Zeithaml Valarie A., Parasuraman A Parsu, Berry Leonard L., Servire qualità, Milano:  McGrow-Hill 1991

Note



I responsabili delle imprese

Mauro Serio

Nell’ambito della ricerca da noi realizzata, sono state condotte tre interviste semi strutturate della durata di circa un’ora per comprendere il punto di vista di chi ha la responsabilità del funzionamento dell’agenzia funebre. Le interviste, audio e video registrate, sono state trascritte e il contenuto analizzato con il programma Atlas.Ti. Le affermazioni sono state codificate dando origine a sette aree semantiche che sono

Grafico 1 – Peso delle aree semantiche

rappresentate nel grafico. Sono state tralasciate alcune tematiche trattate in modo isolato o sporadico. Alcuni argomenti sono ricorrenti in tutte le narrazioni altri sono specifici. Le interviste sono state condotte in maniera non direttiva con una griglia strutturata che è stata utilizzata con ampia flessibilità per lasciare libero il soggetto di esprimersi. Nel testo descriveremo i principali risultati ottenuti ancorandoli alla produzione discorsiva analizzata e a brevi riflessioni. 

Coinvolgimento

Ma sono emozioni perdute quelle che gridano nel deserto e nel silenzio, e le emozioni che si smorzano, e si fanno impalpabili, nelle notti oscure dell’anima, quando siamo sommersi a mano a mano dalla malinconia e dall’angoscia, dalla inquietudine e dalla disperazione: dal silenzio del cuore e dalla solitudine interiore: dal fatale richiamo della morte volontaria. Eugenio Borgna [9]

Le emozioni organizzano sia il pensiero che l’azione. Stabiliscono delle priorità fra obiettivi e ci orientano a intraprendere determinate azioni. Quindi, la paura stabilisce lo scopo della fuga e prepara ad essa, la rabbia fissa lo scopo di superare gli ostacoli e prepara all’attacco. Le mete suggerite dalle emozioni sono ampiamente interconnesse alla regolazione dei nostri rapporti sociali. La gioia e l’amore, per esempio, garantiscono la cooperazione, mentre la tristezza garantisce il ritiro e la richiesta di aiuto e la rabbia garantisce la gestione dei confini.

 P 1: 0101- intervista 1:23 Ho due figli, ricorderò sempre quella volta che era morta la nonna, il più piccolo chiese ma dove va dopo che è morta, la domanda ricorrente per capire dove va a finire una persona dopo la morte. Mio figlio più grande disse: quando uno muore lo portano al cimitero, fanno un buco, lo mettono dentro, lo coprono e li rimane.

Una persona triste e bisognosa di conforto avrà le sue percezioni e azioni influenzate in vari modi. Ad esempio, qualcuno si attiverà per cercare conforto; qualcun altro, invece, farà pensieri tali da aumentare sempre di più la sua tristezza, oppure rievocherà ricordi tristi e si struggerà per il desiderio di contatto, conforto e amicizia. Quindi, l’emozione stabilisce il fine; il pensiero e l’apprendimento forniscono i mezzi per muoverci verso quel fine. Le emozioni sono pertanto le strutture che ci guidano, specialmente nei nostri rapporti con gli altri.

P 2: 0102-intervista 2:17 Può capitare un atteggiamento un po’ rude. Si difendono così. In qualche modo bisogna buttare fuori, altrimenti quando vai a casa è un problema.

L’elaborazione cognitiva, quindi, si attiva per risolvere il problema di come raggiungere lo scopo – fissato dall’emozione – di creare legami, di ottenere conforto o di separarsi.

Le emozioni non sono né razionali né irrazionali; piuttosto sono adattive. Esse sono dei segnali interni che ci guidano per garantire la nostra sopravvivenza. Rispetto alla cognizione, l’emozione è un sistema biologicamente più precoce, adattivo e rapido, un sistema dunque preposto a favorire la sopravvivenza. Le emozioni rispondono immediatamente al significato degli eventi in relazione alla sopravvivenza.[10]

Il lavoro nell’agenzia di onoranze funebri comporta il contatto quotidiano con persone in lutto, quindi persone che esprimono in modi diversi una emozione più o meno forte di sofferenza e tristezza. Le emozioni hanno questa particolare proprietà: sono contagiose.

P 2: 0102- intervista 2:19 Dell’aspetto emotivo non ne parlo quasi mai. Mi capita, a casa, nell’ambito familiare. Però poco. Al lavoro mi capita quando ci sono dei casi molto d’impatto. Non ne parlo perché non è una cosa che mi viene molto naturale.

In effetti succede che per comprendersi gli essere umani replicano mentalmente in modo inconsapevole le azioni degli interlocutori, ovvero li imitano dentro sé per capire che effetto fa. Se una persona parla e ha una espressione addolorata, inconsapevolmente dentro noi ripetiamo quelle parole e quell’espressione per comprenderne il valore emotivo. Questa è una risorsa del comportamento sociale estremamente importante, quindi negli essere umani è particolarmente sviluppata.

L’imitazione inconscia svolge una funzione sociale. Chi agisce come me è percepito come parte del mio in-group e ciò produce atteggiamenti sociali positivi. D’altro canto, se ho atteggiamenti sociali positivi nei confronti di un individuo o di un gruppo, ciò innesca la tendenza a imitarli. Alla base del processo vi è un meccanismo sociale, non l’imitazione. Non siamo sociali perché imitiamo, imitiamo perché siamo sociali.[11]

Essere quotidianamente a contatto con persone addolorate è quindi fonte di disagio, infatti nella vita quotidiana le persone tendono ad evitare chi sta provando dolore oppure tendono a fare in modo che queste non esprimano il loro dolore. Atteggiamenti molto comuni come quelli di minimizzare: “Vedrai che passa”, “Con il tempo passa tutto”, “Succede a tutti”, ecc. di cambiare discorso o evitare il discorso sui fatti dolorosi e sugli stati d’animo connessi al dolore, sul lutto e la perdita, fino ad arrivare ad evitare la persona in lutto sono atteggiamenti sperimentati probabilmente da tutti, da un lato e dall’altro della relazione tra chi soffre e chi ascolta.

Una signora che veniva agli incontri di sostegno per la gestione del lutto mi disse che era molto contenta di venire perché si sentiva ascoltata. Disse che le sue amiche, quando parlava del marito morto o di come si sentiva, dopo poche frasi le raccontavano delle loro esperienze dolorose di lutto o abbandono e si ritrovava a doverle ascoltare comprensiva invece di essere ascoltata.

P 2: 0102- intervista 2:2 Ma la cosa più complicata è quella di parlare con le persone in lutto, cosa che io per l’attività che svolgo non faccio. Parlo con chi il lutto lo vive di riflesso.

La scarsa consapevolezza delle emozioni che si provano comporta l’attivazione di stati mentali e comportamenti che ci appaiono automatici e al di fuori della nostra possibilità di controllo. In questa situazione, di fronte al dolore espresso dalle persone ci troviamo davanti a due sole possibilità: 1) rimanere emotivamente vicino alla persona che soffre, facendoci contagiare e soffrendo con lei; 2) distaccarci dalla persona che soffre per evitare di essere contagiati e di soffrire, percependo però il disagio di fare qualcosa che sentiamo intimamente sbagliata o cattiva. Questa situazione percettiva ha la pessima caratteristica di essere una scelta obbligata tra due possibilità entrambe con conseguenze sgradevoli per noi.

P 1: 0101- intervista 1:5 I suicidi sono molto difficili da affrontare in un primo momento e sono difficili da affrontare anche dopo, nel senso che sono persone che poi tornano per fare gli anniversari, per ricordare i loro cari. Quando le morti avvengono per cause tragiche come i suicidi, anche a distanza di un anno quando vengono per fare l’anniversario, si ha sempre paura di chiedere come va, come sta, però mi sono resa conto che fa piacere. Si cerca di essere distaccati poi però pensi che sono persone come noi.

Questa visione duale della relazione con chi soffre, o soffrire con lui o abbandonarlo, crea un significativo disagio attivando un atteggiamento che potremmo chiamare a pendolo, oscillante tra lasciarsi coinvolgere dalle emozioni delle persone in lutto ed essere distaccati, senza trovare quel giusto atteggiamento e quella giusta distanza che potrebbe permettere di accogliere ed ascoltare le persone senza farsi carico del loro dolore, senza cedere alla tendenza inconsapevole di inglobare l’altro in noi, accettando che tra noi e l’altro esiste una distanza incolmabile, una distanza che va accettata, riconosciuta ed abitata, senza confondere noi e l’altro [12].   

P 2: 0102- intervista  2:1 La cosa che è più difficile, più complicata da riuscire a metabolizzare è che questo è un tipo di azienda molto particolare che tratta con il dolore delle persone. Non è solo il dolore delle altre persone, è anche il nostro dolore, in casi molto specifici, particolari.

Quando per molto tempo, molti anni, si vive questo dilemma si rischia di attivare schermi difensivi rigidi che si ritengono parte integrante del nostro modo di essere, di quella che si ritiene sia la nostra identità. Diverse persone che non svolgono questo lavoro, nelle loro interviste hanno dichiarato che un certo livello di insensibilità sia una caratteristica necessaria per svolgere il lavoro di operatore funebre. Per loro è importante essere tendenzialmente poco sensibili. Nei focus group con gli operatori funebri è emerso il timore di essere diventati completamente insensibili al dolore e al lutto e il sollievo nello scoprire di poter ancora piangere e rattristarsi per un lutto personale.

Dando per scontato questo dualismo tra coinvolgersi nel dolore o distaccarsi dalla persona subendo poi il senso di colpa per averlo fatto o la percezione di aver perso un po’ di umanità temendo di non riuscire più a provare emozioni, non vedendo alcuna terza opzione, non ci si può interrogare se sia possibile rimanere vicini alle persone che soffrono senza necessariamente condividere emotivamente la loro sofferenza. Solo accettando che esistono alternative si rende agibile la possibilità di formarsi, di apprendere, di sperimentare nuove pratiche dell’accoglienza di chi soffre.

Come vedremo più avanti la concezione diffusa e radicata che questo lavoro possa essere appreso solo facendolo rende impervia la possibilità di progettare percorsi formativi orientati alla presa incarico della persona che soffre e all’empatia, nella definizione che ne viene data professionalmente che è significativamente differente da quella comune. In psicologia: la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva.

Con l’empatia siamo con l’altra persona. Questo non significa che proviamo i suoi stessi sentimenti. Siamo con lei mentre prova i suoi sentimenti. Se ci distogliamo dall’altra persona per un secondo, possiamo notare che abbiamo dei sentimenti forti. Se è così non cerchiamo di reprimerli. Ci dicono che non siamo con l’altra persona. Siamo rientrati in noi stessi. Quindi ci diciamo: “Torma con l’altra persona”.[13]

Solo la comprensione del fatto che esiste l’alternativa tra stare con l’altro e soffrire o allontanarsi dall’altro per non soffrire può permettere agli operatori delle agenzie di onoranze funebri di imparare a relazionarsi con le persone in lutto con empatia, ascoltandole e comprendendole, riducendo notevolmente il malessere dovuto al contagio delle emozioni altrui, senza temere di perdere la propria umanità, anzi comprendendo che la professione, nel momento della relazione con chi soffre, è analoga alle altre professioni della relazione di aiuto. 

Stress

Il nostro compito principale non è di vedere quel che si profila indistinto al lontano orizzonte, ma di fare quel che abbiamo a portata di mano Thomas Carlyle

La seconda area semantica che si è individuata è quella a cui abbiamo assegnato il titolo di stress ad indicare quali fattori influenzano la qualità del lavoro in termini problematici. Brevemente diamo alcune note relative al concetto di stress lavoro-correlato rimandando ai testi citati per eventuali approfondimenti.

Lo stress è l’esperienza psicologica negativa che scaturisce dalla presa di coscienza di un problema, e poi dal riconoscimento che esso rappresenta una difficoltà che supera le proprie capacità di coping.[14]

I fattori che contribuiscono alla gestione dello stress possiamo indicarli nel controllo sul lavoro, nella valutazione soggettiva del fattore stressante, nelle risorse sociali a disposizione e nella capacita di coping.

Il controllo sul lavoro.

Una richiesta di prestazioni elevata sottopone la persona ad una pressione che può essere attenuata da una elevata possibilità di controllo sul lavoro. Il controllo agisce da moderatore sulla richiesta di prestazioni, riducendone l’effetto negativo. L’elevato controllo sul lavoro associato ad una elevata domanda di prestazioni favorirebbe un processo di apprendimento e una riduzione dello stress.

P 2: 0102- intervista 2:12 Il non soddisfare le esigenze delle persone che hai di fronte in effetti è un motivo di stress. Bisogna essere molto precisi, educati, tranquillizzanti per quello che si può essere. Lo stress maggiore è avere degli inconvenienti, non trovi l’orario per la funzione, non riesci a trovare la persona che ti dà l’informazione giusta per la tomba.

P 3: 0103- intervista 3:1 La cosa è impegnativa, soprattutto la parte preparatoria. Tiene sempre in tensione il personale, dal momento in cui si organizza fino a che non è terminato tutto anche perché è un evento che non è ripetibile, di conseguenza l’errore di quel momento non è più recuperabile. Devi avere predisposto bene tutto, sapere chi fa che cosa, quando è il momento giusto e tutta l’operatività che ne segue. Fino a che non si è arrivati al cimitero la tensione rimane sempre negli operatori, questo è indubbio, se uno lo fa con coscienza.

La valutazione personale.

Il modo in cui valutiamo l’evento stressante è il processo mentale mediante il quale diamo all’evento un significato soggettivo positivo, trascurabile o negativo: lo stress non dipende solo dalla somma degli eventi stressanti, ma anche da come il soggetto li valuta, quindi dal peso emotivo individualmente attribuito ad ogni evento.

P 1: 0101- intervista 1:9 La preparazione della salma è di maggior impatto e ci sono quelli che fanno più fatica di altri. So di dipendenti che si occupano della preparazione delle salme che hanno dei problemi nella preparazione di determinati tipi di salma come possono essere i bambini.

P 2: 0102- intervista 2:11 Ci sono persone che riescono a fare le attività di trasporto e vestizione, però se devono organizzare un funerale non ce la fanno. Ho smesso di richiedere questa attività ad una persona perché era una cosa che non reggeva. Non riusciva a tollerare il dolore degli altri. Quando sei in una stanza, tu, un pc e di fronte hai due, tre o quattro persone, è una di quelle situazioni da panico. Sei tu e basta. Se reggi, ok. Ci sono delle persone che non reggono.

 Le risorse sociali.

L’impatto del fattore stressante è mediato oltre che dal processo individuale di valutazione cognitiva anche dalle risorse sociali e culturali disponibili per affrontare la minaccia, risorse che vengono organizzate in una strategia (coping).

P 2: 0102- intervista 2:4 Ho capito che devo avere più attenzione nel rapporto con le persone che lavorano. Loro mi hanno insegnato molte cose, alcune volte come si gestisce questa difficoltà, questa normalità di avere costantemente il confronto con il dolore. Un’altra cosa che secondo me è giusto dire è che non è una questione per cui tu fai un lavoro dove un giorno hai una situazione di dolore, poi cinque giorni no, è una cosa costante. Il burnout è un rischio molto presente.

P 3: 0103- intervista 3:6  Tra di loro ne parlano. Nei gruppi che si creano, per forza di cose all’ora di pranzo, e c’è un aiuto reciproco tra le persone. Quando hanno una problematica ne vengono a parlare con me o ne parlano fra di loro. Ci si confronta su come ha fatto l’uno o l’altro. Nel contempo si cerca di sdrammatizzare quello che è successo, sempre nel pieno rispetto della famiglia, delle persone. Quando siamo  tra noi in sede, tra le persone che fanno l”attività, senza presenze esterne, sempre con i dovuti modi.

La capacità di coping.

Il processo di “coping” è l’insieme dei tentativi per controllare gli eventi ritenuti difficili o superiori alle nostre risorse; è un processo di adattamento ad una situazione problematica.

P 1: 0101- intervista 1:15 Durante la chiusura del feretro, in camera mortuaria, bisogna sempre stare attenti che ci siano i famigliari intorno, e se manca qualcuno dobbiamo chiamare perché a volte si perdono a parlare con i parenti o sono fuori. Compito nostro è anche quello di avvisare tutti in modo che in quel momento siano tutti presenti. Anche durante la cerimonia il caposquadra deve essere sempre attento a quelle che possono essere le esigenze delle persone perché in quel momento sono prese da altre cose e ti rendi conto che se hanno bisogno di chiedere qualcosa e non trovano nessuno, tu ci sei.

P 3: 0103- intervista 3:4 Poi c’è la parte di stress che deriva dall’organizzazione. Io ho cercato di organizzare tutti i vari step, ma per arrivare al servizio funebre ci sono vari passaggi da affrontare, varie cose da fare sia amministrative che pratiche, e quindi c’è la difficoltà  di affrontare tutte queste cose. Incasellare tutte le attività e incastrarle le une con le altre è una reale difficoltà, tanto è vero che quando uno ha terminato le sue otto-nove ore di lavoro ed esce dall’ufficio, continua a pensare a quello che è successo durante la giornata, su questo non ci sono dubbi.

 Organizzazione

Le organizzazioni sono generalmente dei fenomeni complessi, ambigui e paradossali. La vera sfida consiste nell’imparare ad affrontare questa complessità. Gareth Morgan[15]

Le organizzazioni sono sistemi di azioni coordinate tra individui e gruppi che differiscono per le loro preferenze, informazioni, interessi o conoscenza.

P 3: 0103- intervista 3:23 Beh, la scorza penso che ce l’abbiamo tutti. Il rispetto per quello che fanno e per i corpi ce l’hanno tutti. Di questo sono convinto: abbiamo delle persone brave. Riconosciuto anche dai familiari, dai riscontri avuti. E’ un lavoro in cui è molto importante essere coordinati e passarsi le informazioni tra gli operatori.

L’obiettivo primario è la sopravvivenza dell’organizzazione ottenuta primariamente mediante il controllo delle informazioni, dell’identità, delle storie e degli incentivi.

Le organizzazioni elaborano e veicolano informazioni; condizionano gli obiettivi e la lealtà dei propri membri; creano storie condivise, un ethos organizzativo che include credenze comuni e pratiche standardizzate; offrono incentivi per comportamenti appropriati. Il controllo effettivo sui processi organizzativi è comunque limitato dalle incertezze e dalle ambiguità della vita, dalle limitate capacità cognitive e affettive degli attori umani, dalla complessità degli equilibri di scambio attraverso il tempo e lo spazio e dalle minacce della competizione.[16]

L’agenzia funebre ha bisogno di coordinare l’attività di tre aree principali:

– l’accoglienza delle persone che hanno subito il lutto e la definizione degli aspetti sia organizzativi che qualitativi della cerimonia. In questa sede devono essere definiti luogo e tempi, modalità, materiali e strutture da utilizzare;

– il disbrigo di tutte le pratiche burocratiche previsto dalle leggi;

– le attività previste per il trattamento del corpo, la vestizione e collocazione nel cofano funebre, il trasporto.

P 2: 0102- intervista 2:5 Organizzare il funerale vuol dire individuare tutte le necessità per un servizio funebre, quindi un cofano, i fiori, necrologi, organizzare la vestizione della persona nel luogo dove questa attualmente è collocata prima del servizio funebre. Parlare con i colleghi che effettueranno il servizio vero e proprio. Sono poi quelli che tengono i rapporti con la persona di riferimento del servizio. La aiutano, se necessario, ad individuare quali sono le strade migliori per poter utilizzare la tomba, il manufatto, li mettono in rapporto con il cimitero, con la polizia mortuaria.

Queste attività sono svolte da persone diverse e necessitano di un attento coordinamento. Devono essere quindi pianificate le diverse attività in quanto lo svolgimento di alcune sono premesse necessarie allo svolgimento delle altre.

Inoltre capitano frizioni, come normalmente avviene tra diversi gruppi di lavoro, tra chi organizza e pianifica le attività e chi deve successivamente svolgere le attività pianificate rimanendo nei tempi previsti.

A volte il desiderio di soddisfare una qualche richiesta della persona in lutto può spingere chi organizza il funerale a fare promesse che possono mettere in difficoltà chi deve poi operare per mantenere quella promessa, sia in termini di particolari attività da svolgere sia in termini di pianificazione dei tempi difficile da rispettare.

P 2: 0102- intervista 2:23 Noi dobbiamo risolvere dei problemi. Risolvere un problema enorme: non far soffrire di più la persona. Dobbiamo riuscire a non aggravare il dolore.

Le agenzie di onoranze funebri si confrontano con dei clienti particolari: le persone in lutto. Questo aspetto influenza ogni attività e comportamento degli operatori funebri e l’organizzazione ne viene plasmata.

L’evoluzione sociale ha portato grandi cambiamenti nel lavoro delle imprese funebri che hanno dovuto organizzarsi per rispondere alle diverse richieste delle persone in lutto e per adeguarsi alle nuove normative che venivano emanate da comuni e regioni.

P 1: 0101- intervista 1:3 Una volta si moriva in casa e comunque la morte faceva parte della vita e tutti condividevano questo. Era un momento che veniva condiviso con tutti coloro che abitavano all’interno di una casa, con tutte le persone che facevano parte di una stessa famiglia. Poteva venire a mancare il nonno o il bisnonno e anche i bambini piccoli o meno piccoli partecipavano a questo momento della fine della vita. Era normale che fossero gli stessi famigliari che si occupavano di preparare la salma, di metterla in ordine. C’era chi voleva occuparsene direttamente altri che preferivano che fosse fatto dalle onoranze funebri. Noi andavamo e la salma veniva ricomposta e collocata nel proprio letto e veniva lasciata li fino al giorno del funerale. Ora invece quando una persona viene a mancare in casa, prima ancora di chiamare il medico le persone chiamano noi. Perché? Perché le persone hanno il pensiero di portarlo via da casa, di tenerlo il meno possibile all’interno della propria casa, quasi una sorta di paura.

Oltre alla corretta pianificazione delle attività e dei tempi di esecuzione, un aspetto che viene indicato come particolarmente importante è la trasmissione delle informazioni in modo che si possa essere sempre respons-abili (abili nel rispondere) alle persone in lutto.

P 1: 0101- intervista 1:2 Tutti devono conoscere sempre tutte le informazioni: il nostro è un lavoro particolare e devono essere in grado di rispondere ai familiari che possono chiamare in azienda, e non è possibile rispondere non lo so, il responsabile adesso non c’è. Questo è vero per coloro che lavorano in ufficio, cioè quelli che svolgono il ruolo commerciale, quindi di organizzazione del servizio funebre, mentre per quanto riguarda gli operatori funebri, chi svolge la funzione di necroforo sta principalmente fuori in esecuzione di servizio, nella preparazione delle salme, loro non stanno in ufficio e quindi non rispondono al telefono. Però vengono sempre informati di ogni cosa perché comunque il contatto con i famigliari riguarda anche loro, li incontrano in camera mortuaria o durante la cerimonia, quindi anche loro devono sempre essere informati.

Infine va notato che la complessità delle attività delle agenzie funebri viene spesso accentuata dalle normative e soprattutto dagli uffici pubblici a cui ci si deve rivolgere per svolgere le pratiche previste dalle normative.

Formazione

Dedichiamo un paragrafo specifico alla trattazione di questo tema che riguarda il 13% della produzione discorsiva analizzata in quanto risulta centrale anche per comprendere meglio le esigenze formative e di supporto espresse dal personale delle imprese funerarie che saranno meglio descritte nel capitolo successivo.

 Tutti gli operatori funebri operanti nella regione Emilia Romagna devono aver svolto la formazione obbligatoria prevista nella regione. Vengono individuate tre figure professionali.

– L’Operatore funebre (Necroforo) è in grado di svolgere le operazioni preliminari ed esecutive del servizio di trasporto funebre.

– Il Responsabile della conduzione dell’attività funebre è in grado di gestire l’impresa funebre come azienda commerciale nel rispetto di un armonico rapporto tra assistenza ai vivi e pietà per i defunti.

– L’Addetto alla trattazione degli affari è in grado di gestire le filiali dell’impresa funebre curandone gli aspetti commerciali[17]

I percorsi formativi sono due: di base e specialistico. Il percorso teorico di base (24 ore) è volto a istruire i partecipanti sulle seguenti procedure: autorizzazioni al trasporto, alla sepoltura e alla cremazione. Attestazioni mediche; norme concernenti il trasporto funebre e gli obblighi dell’incaricato di pubblico servizio; obitorio, servizio mortuario sanitario, servizi per il commiato; operazioni cimiteriali, sepolture e cimiteri, cremazioni e crematori; norme e procedure in tema di salute e sicurezza dei lavoratori; procedure nel trattamento delle salme e dei cadaveri; norme, regolamenti, vigilanza, controlli e sanzioni; mezzi funebri, rimesse, sistemi di sanificazione e disinfezione. Il percorso aggiuntivo di tipo specialistico (16 ore) si focalizza sulle norme che regolamentano i rapporti di lavoro; sugli obblighi del datore di lavoro in tema di salute e sicurezza dei lavoratori; sulla conduzione del personale e dell’impresa; sui principi e sui metodi della promozione della qualità nelle imprese; sui rapporti con i dolenti, incluse quelle connesse al lutto; sulla qualità del servizio e cerimoniale e, infine sugli aspetti amministrativi, contabili e fiscali e sulla formazione dei prezzi. [18]

Tutti gli intervistati riconoscono la carenza di un percorso formativo troppo orientato sulle procedure rimandando ancora una volta all’esperienza come unica condizione formativa. Cosi si esprimono gli intervistati:

P 2: 0102- intervista 2:8 Per essere abilitati all’esercizio della professione è necessario che abbiano fatto un corso, come prescrive la legge, di preparazione sia alla trattazione degli affari commerciali che alla trattazione dei defunti. Un corso di 40 ore, che io stesso ho fatto. Sono tutte persone che hanno una preparazione di massima. Poi viene affinata perché nel corso degli anni si impara, ci si forma. Sottolineo che la preparazione è di carattere tecnico, ma la preparazione più forte, più robusta è quella che uno si costruisce nel tempo, parlando con le persone.

P 2: 0102- intervista 2:9 Devo dire che, come noi che abbiamo una certa età, più si va avanti con l’età, e sbagliando secondo me, più si è convinti che non sia più necessario formarsi. Insisto molto perché gli operatori si aggiornino, perché si preparino dal punto di vista tecnico specialistico, con delle competenze apprese e applicate. Non è solo una questione di applicazione di conoscenze, è una questione, dato il mestiere, più profonda.

Alcune esperienze formative promosse in azienda, oltre la formazione obbligatoria, non hanno ottenuto un risultato soddisfacente o comunque non sono state percepite come adeguate al bisogno.

P 3: 0103- intervista 3:13 E’ stata fatta una formazione, però non era mirata, perché il formatore non aveva ben chiaro chi avesse di fronte, qual era il quadro della situazione del nostro lavoro. E’ stata una via di mezzo tra un cercare di dare aiuto ma è stato un arrangiarsi. Dire a persone che fanno questo tipo di attività da anni, spiegare loro cosa fare risulta essere un impegnativo. Dire come ci si deve comportare. Voi sapete che ci sono diversi modi per affrontare queste situazioni. Se una persona è già 10-15 anni che fa questo tipo di attività, ha un percorso professionale e un’abitudine a trattare con le persone in lutto sa capire come si deve fare.

La difficoltà appare essere quella di non riuscire ad individuare chiaramente su quali aspetti attivare la formazione. Non appare semplice una rilevazione dei bisogni formativi quando gli interessati hanno la radicata convinzione che l’unica formazione possibile e valida è quella che si può ottenere al lavoro.

P 3: 0103- intervista 3:26 Per quanto riguarda il nostro lavoro, l’unica cosa importate da dire è che non c’è una scuola che ci insegna a fare questo lavoro. La scuola è apprendere da quelli che lo hanno fatto prima di te, che lo hanno sempre fatto con coerenza. Bisogna essere anche aggiornati per sapere cosi si può fare e cosa no. Un supporto è una cosa più impegnativa.

Tali convinzioni emergono anche dalle affermazioni degli operatori funebri che hanno partecipato ai focus group. Questo non significa che non ci sia la percezione di aver bisogno di aiuto, di supporto o formazione per affrontare gli aspetti emotivi del lavoro, semplicemente, nella convinzione che o si è tagliati per fare il lavoro, predisposti, o è meglio lasciar perdere, non è facile esprimere le proprie difficoltà emotive.

P2: 0202-Focus 2:568  Sai cosa sarebbe bello? Che una volta ogni tanto, una volta al mese, poter fare come adesso, questa cosa qui. Tipo quelle sedute che si fanno, senza un tavolo, dove ognuno è di fronte all’altro e dove possiamo veramente tirare fuori i nostri problemi. Non solo quelli lavorativi, anche quelli che ho a casa, perché poi alla fine della corsa, il problema che ho a casa influisce anche sul lavoro.

A volte nella formazione viene utilizzato un atteggiamento da esperti: il formatore è quello che possiede la conoscenza e insegna come si deve fare se non addirittura come si deve essere. Quando ci si confronta con operatori che possiedo una lunga esperienza di lavoro un approccio di ascolto, attenzione e rispetto per chi da anni affronta la difficoltà e complessità del lavoro potrebbe essere la chiave per sviluppare processi di crescita professionale e personale.

Il conduttore può dispiacersi quando trova in aula partecipanti stretti in camicie di forza ed è mosso dall’impulso si strapparle, per ridare loro il piacere della libertà di utilizzare le risorse e di espandere le potenzialità inespresse. I partecipanti che si presentano ad un corso di formazione, per assunto di base, sono sani: sono adulti che hanno le risorse necessarie e sufficienti per cambiare, per crescere e per diventare ciò che possono e vogliono diventare.[19]

Relazione

L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto. Carl Rogers

Ogni persona che per motivi diversi deve interagire con persone sconosciute fino a quel momento, comprende la difficoltà di relazionarsi adeguatamente con loro. Che lavori in uno sportello informativo o un ufficio aperto al pubblico, come insegnate o educatore, che sia un venditore o un allenatore sportivo, un commesso o un cameriere nella sua carriera si sarà trovato varie volte a porsi la domanda “In quale modo avrei dovuto comportarmi con quella persona? Cosa ho sbagliato?”.

Se il comportamento non fosse prevedibile non riusciremmo a dargli un senso; d’altra parte siccome le previsioni possono essere sbagliate e infatti poco o tanto lo sono quasi sempre, dobbiamo cambiarle. È un processo continuo nel quale siamo sempre impegnati anche se non ne siamo consapevoli e anche se cerchiamo, come gli abitanti di Esotica, di ridurre la non prevedibilità al minimo.[20]

Purtroppo il comportamento di interazione delle persone non è prevedibile se non entro grandi schemi generali: di fronte alla medesima situazione le persone reagiranno a volte come ci aspettiamo, altre volte in modo assolutamente imprevisto. Questo rende più probabile utilizzare un modo di interagire inadatto e ci espone ai rischi di reazioni negative nei nostri confronti o di blocchi nella comunicazione. Certamente questo aspetto è ansiogeno ed è il principale motivo per cui una parte di persone non sopporta il contatto con il pubblico. Non  può sorprendere quindi che la relazione con persone in lutto, quindi persone in una situazione particolarmente emotiva e in una condizione di estrema fragilità, rappresenti uno degli aspetti più difficili del lavoro dell’operatore funebre.

P 1: 0101- intervista 1:4 Bisogna entrare un po’ in punta di piedi, quando succedono determinati eventi, per non urtare la sensibilità. Si ha sempre paura o di dire qualcosa di troppo o di apparire troppo distaccati. Siamo i primi che vengono contattati quando viene a mancare una persona e  non puoi sapere quale sia la reazione della persona che hai davanti.

Non c’è il tempo per conosce la persona, per sapere cosa pensa e come reagisce alle situazioni dolorose come quella che sta vivendo. Non c’è modo di prevedere come reagirà alle affermazioni fatte dall’operatore, quindi bisogna muoversi in “punta di piedi”, è necessaria una grande delicatezza e nello stesso tempo una spiccata attenzione per poter nel più breve tempo possibile riuscire ad entrare in empatia con chi si ha di fronte. Esistono delle tecniche che possono essere apprese e che aiutano a svolgere meglio questo compito spesso difficile.

Avere dalla propria la varietà indispensabile significa disporre di diverse possibilità di incontrare altre persone, specialmente persone i cui stili di comportamento sono piuttosto diversi dai tuoi. Significa essere capaci di evitare quegli stili che, senza che chi li utilizza se ne accorga, risultano sgradevoli agli altri. È importante essere flessibili e usare parole, frasi e immagini familiari alle altre persone. Se ascolti attentamente il loro linguaggio, saprai con quali parole, frasi e immagini si sentono a proprio agio.[21]

Esistono poi situazioni particolari che ogni operatore funebre conosce e che sono sempre difficili da gestire, tenuto conto che, come abbiamo detto, a quanto dirà l’operatore la persona in lutto potrà reagire in tanti modi diversi. Quindi l’operatore dovrà saper adattare il suo linguaggio e i contenuti di quanto dice man mano che lo afferma, in corso d’opera possiamo dire, cercando di comprendere il più presto possibile quale effetto stanno avendo le sue parole per potersi correggere in fretta se si accorge che l’effetto provocato non è quello che avrebbe voluto.

P 1: 0101- intervista 1:10 Succede a volte che i familiari non riconoscono le persone che hanno sofferto per una malattia o un incidente. E’ successo che andando in camera mortuaria per accompagnare una persona, davanti al feretro la persona mi dicesse “Ma non è mica lui!”. Poi spiegare cosa è successo è sempre difficile. Va spiegato per quale motivo il corpo del loro caro si è così modificato. Bisogna cercare di dire le cose in modo che siano percepite nella maniera giusta. Non posso dire non può andare a vedere il suo parente, anche se penso che potrà avrà un effetto terribile e molto doloroso.

Quando l’operatore si trova davanti la persona in lutto spesso ha di fronte una persona che non riesce bene a comprendere cosa deve fare e tantomeno quali sono le esigenze che ha. Si può trovare di fronte una persona spaesata, talmente addolorata che ogni altra cosa esterna al proprio dolore le appare insignificante o addirittura offensiva.

P 1: 0101- intervista 1:21 Comunque quello che è importante nel nostro lavoro è proprio il contatto. Cercare di capire che cosa vogliono che venga fatto da parte nostra. Capire quello che deve essere fatto e quello che loro vogliono o che venga fatto o che non venga fatto. Spesso le persone non te lo dicono perché è un momento particolare e quindi non lo dicono, sei tu che le devi imboccare: vuole che venga fatto così, come vuoi che venga pettinato, come vuoi che venga truccata? In quel momento hanno altro di cui occuparsi: il dolore. Per cui il compito dell’impresario è quello di fare tutto il resto, di occuparsi di tutto quello che loro in quel momento non riescono a fare.

Preoccupati di cosa dobbiamo fare spesso ascoltiamo noi stessi, ci raccontiamo cosa dobbiamo fare, ci avvertiamo di stare attenti e in questo modo perdiamo il contatto con l’altra persona. Lo stesso processo che avviene quando ci facciamo contagiare dai suoi stati d’animo: ascoltiamo e facciamo attenzione a noi stessi e perdiamo di vista il nostro interlocutore. Questo può capitare a tutti, ma a volte incontriamo determinate situazioni che immancabilmente ci creano lo stesso effetto: ci ritiriamo in noi e perdiamo il contatto con l’altra persona.

La mente non smette mai di raccontare storie, neppure quando dormiamo: continua a confrontare, giudicare, valutare, criticare, pianificare, sentenziare e fantasticare. E molte delle storie che ci racconta attraggono irresistibilmente la nostra attenzione. I nostri pensieri assorbono tanto tempo, energie attenzione. Il più delle volte li prendiamo troppo sul serio e gli dedichiamo troppa attenzione.[22]

Sono molte le strategie e tecniche che possono aiutare gli operatori a svolgere bene il loro lavoro e soprattutto a ridurre l’impatto di sofferenza che è implicito nella relazione con le persone in lutto. Qualcuna la possono aver imparata osservando i colleghi, ma alcune difficilmente possono essere apprese in questo modo.

Criticità

Malcolm Gladwell individua tre leggi relative a quello che chiama il punto critico, ovvero quel punto che cambia radicalmente l’evoluzione di un processo. La prima legge la chiama la legge dei pochi, ovvero bastano pochi avvenimenti per creare un grande cambiamento. La seconda la chiama il fattore presa ed è la capacità di un determinato evento di incidere sulla situazione di riferimento. La terza legge la chiama il potere del contesto che indica quanto il contesto possa essere importante per definire il punto critico.

La legge dei pochi. Chi opera nelle onoranze funebri ha compreso che basta intervenire male su un piccolo particolare, che a persone estranee al quel contesto lavorativo potrebbe apparire insignificante, per determinare una pessima percezione dell’accaduto che metterà in cattiva luce tutto il lavoro fatto.

Il fattore di presa. Questo piccolo particolare può avere questo grande effetto se l’inconveniente accade in uno dei momenti cruciali del servizio funebre, momenti che devono quindi essere individuati e attentamente presidiati. In questi momenti particolari non bisogna assolutamente commettere errori.

Il potere del contesto. L’importanza di questi momenti e dei relativi errori è determinata dal contesto del servizio funebre che è particolarmente significativo per le persone che lo stanno vivendo. Quello che accade in quel contesto ha una valenza diversa e molto superiore a quanto accade in altri contesti.

Tuttavia se nel mondo del punto critico abitano la difficoltà e la volubilità, c’è anche una grande quantità di speranza. [..] i punti critici sono una riaffermazione del potenziale del cambiamento e del potere dell’azione intelligente. Guardate il mondo intorno a voi: può sembrare un luogo imperturbabile e implacabile, ma non lo è. Con una spinta leggerissima, data al posto giusto, può essere capovolto. [23]

Per questi motivi, spesso appresi dall’esperienza, esiste una particolare attenzione a quelli che possono essere passaggi critici durante l’organizzazione e l’esecuzione del servizio funebre. Essere attenti alle persone in lutto nel momento in cui vengono a richiedere il funerale per poterli seguire con attenzione e nello stesso tempo per evitare di opprimerli con i troppi particolari e piccole decisioni che possono essere richieste dall’organizzazione stessa. Fare attenzione che tutti i familiari siano stati avvisati nel momento di chiudere il feretro. In caso di modificazioni del corpo a causa dei traumi subiti o della malattia riuscire a spiegare bene ai familiari in quali condizioni troveranno il corpo del loro caro e il motivo di queste condizioni.

P 3: 0103- intervista 3:15 Se tutto è organizzato bene, devi stare sempre in rapporto con i clienti e non è mai un rapporto facile. Ci sono vari momenti di criticità: il momento della chiusura del feretro, per esempio, è un momento di criticità perché è un momento di distacco. Qui la relazione con i parenti può essere difficile.

P 1: 0101- intervista 1:14 Alla tumulazione delle ceneri che avviene il giorno dopo la cremazione, è accaduto che gli operatori della polizia mortuaria hanno tumulato mentre la persona in lutto era girata e non ha visto il momento in cui chiudevano l’ossarietto.  Si è risentita e ha voluto che gli operatori togliessero la piastra perché voleva vedere la chiusura. Effettivamente i due momenti difficili per i dolenti sono il momento della chiusura del feretro perché è l’ultima volta che vedono la persona cara, e il momento in cui viene tumulato e se cremata vengono messe le ceneri nell’ossarietto. Ecco allora che l’operatore dovrebbe essere attento a queste cose.

Un aspetto che emerge spesso anche dai discorsi degli operatori è che l’errore assume una particolare gravità in quanto può rendere anche spiacevole un momento che è doloroso. Inoltre non è possibile rimediare al danno psicologico causato dall’errore commesso .

 P 2: 0202-Focus-2:91 Però, la cosa che più sento è la paura di sbagliare, perché non ho una seconda possibilità, non puoi rimediare e crei un danno alle persone.

P 2: 0202-Focus-2:88 A me crea ansia la paura di sbagliare a fare il mio lavoro, perché io ho una possibilità sola, se muore una sorella, non posso dire: “vabbè dai, con l’altra farò meglio” quindi il problema del nostro lavoro è questo: se sbagli non puoi rimediare.

Stigma

Gli operatori funebri sono stati da sempre oggetto di attenzioni non particolarmente benevoli. Nel suo studio sull’arte dei beccamorti a Napoli nell’età moderna Diego Carnevale recupera documenti relativi alla definizione di mestiere infamante, come quello del boia, che produceva una riduzione vera e propria dei diritti o di mestiere vile che non produceva una riduzione di diritti ma poneva la persona in una situazione rischiosa dal punto di vista dei diritti e soprattutto additata socialmente come poco apprezzabile. In tale posizione si trovavano i beccamorti insieme ad una varia compagnia di altri mestieri.

Oltre ai mestieri infami de iure vi era poi un’ampia gamma di attività poco prestigiose: barbieri, cerusici, macellai, vuotapozzi, cavadenti, mugnai, scuoiatori, necrofori, domestici e molte altre figure considerate viles et abiectae personae ma non infames.[24]

Per il sociologo Erving Goffman lo stigma è una caratteristica della persona che la rende in qualche modo diversa dalla cosiddetta normalità. Questo induce le persone cosiddette normali ad avere dei particolari comportamenti relazionali nei confronti delle persone stigmatizzate.

Definirò normali noi e quelli che non si discostano per qualche caratteristica negativa dai comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro. I normali credono che la persona con uno stigma non sia proprio umana. Partendo da questa premessa pratichiamo diverse specie di discriminazioni, grazie alle quali gli riduciamo, con molta efficacia anche spesso inconsciamente, le possibilità di vita. Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità e ci preoccupiamo di definire il pericolo che quella persona rappresenta, talvolta razionalizzando un’animosità basata su altre differenze, come quella di classe.[25]

I gesti scaramantici a cui gli operatori funebri sono esposti sono solo la punta dell’iceberg che definisce come le persone “normali” li considerano ancora oggi, anche se certamente questa situazione si sta evolvendo ed iniziative mirate a far conoscere il loro lavoro e la professionalità che hanno acquisito e dimostrano ogni giorno porta ad attenuare tali atteggiamenti.

P 1: 0101- intervista 1:17 E’ vero, chi aveva in famiglia un impresario funebre era oggetto di segni scaramantici da parte di altri, perché era quello che portava sfortuna. Adesso un po’ meno, ma una volta era più sentito, non se ne parlava neanche. Per me era normale.

P 1: 0101- intervista 1:8 Si, quando dicevi cosa fa tuo padre qualche risatina o qualcuno che si toccava, nel senso che faceva tutti gli scongiuri, quello si. Chi ha a che fare con la morte è collegato a qualcosa che porta sfortuna.

Chi opera in una impresa funebre di famiglia è abituato da sempre a questo genere di comportamenti e non ci fa più caso. Diversa la situazione di chi non proviene da una famiglia che gestisce un’agenzia funebre solitamente più sensibili ai gesti scaramantici e ad altri atteggiamenti che tendono a marcare una specificità e una differenza.

P 2: 0102- intervista 2:19 Quando mi chiedono che lavoro faccio e lo dico, autorizzo a fare scongiuri, è un modo per esorcizzare..

P 3: 0103- intervista 3:7 Sono tutti portati a toccare ferro o fare qualche altro gesto quando vedono un carro da morto. Persone per bene si fanno il segno della croce, altri magari fanno altre cose. Viene preso per scaramanzia, non per denigrare le persone.

Questa sensibilità sembra ulteriormente aumentare quando passiamo dai direttori o titolari agli operatori funebri.

P 2: 0202-Focus 2:125 Poi lei [riferito all’intervistatore] non si interessa alle solite tematiche, capisce che non siamo solo dei beccamorti. Pensi che c’è una ragazza che tutte le volte che mi vede dice: ecco il mio becchino preferito. [Il tono è offeso]

P 2: 0202-Focus 2:124 Normalmente c’è chi lo dice o lo fa per ridere e c’è chi è serio, ma quando le persone ti vedono si toccano per scaramanzia. Questo ti fa capire che pensano che questo sia un lavoro un po’ così. Invece già il fatto di avere della gente che impiega il proprio tempo per ascoltare quello che noi gli raccontiamo [gli intervistatori], già questo mi fa sentire importante.

Al convegno Il sogno dell’eternità. Il necroforo tra imprevedibilità e rito, tenuto a Ferrara nel dicembre 2018, Daniele Fogli, responsabile nazionale SEFIT – Servizi Funerari Italiani, racconta che quando iniziò la sua attività come responsabile dell’agenzia funebre pubblica di Ferrara, quarantotto anni fa, le persone avevano anche timore a stringere la mano ad un operatore funebre. Un dirigente comunale gli disse che se voleva essere riconosciuto da loro doveva stringere la mano a tutti i suoi operatori. Sarebbe stato un gesto molto apprezzato.

Possiamo ritenere che sono stati fatti passi avanti rispetto a quella situazione, ma certamente non si è ancora cancellato quello stigma che, seppur attenuato, ancora sembra colpire i lavoratori di questo settore in maniera più significativa rispetto agli imprenditori. 

Opere citate

– Bonetti Daniela, Stress lavoro-correlato: definizione e modelli causali reviews, in «Giornale italiano di medicina del lavoro ed ergonomia» 33 (2011) n.3 supplemento 2, p. 332–333 <http://www.bollettinoadapt.it/old/files/document/215302012_Bonetti.pdf>

– Borgna Eugenio, Le emozioni ferite. Milano: Feltrinelli 2010

– Carnevale Diego, Storia di un mestiere qualunque: l’arte dei beccamorti a Napoli in età moderna << Quaderni storici>> 47 (2012) n.141,  p.825-856

– Casula Consuelo, I porcospini di Schopenhauer, Milano: Franco Angeli, 2012

– Gladwell Malcolm, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti. Milano: BUR 2009

– Greenberg Leslie S., Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata, Roma: Sovera Edizioni 2017

– Russ Harris, La trappola della felicità, Trento: Edizioni Erickson 2010

– Hickok Gregory, Il mito dei neuroni specchio: comunicazione e facoltà cognitive, Bollati Boringhieri 2015

– March James G., Simon Herbert A., Teoria dell’organizzazione, Milano: EtasLibri 1995

– Morgan Gareth, Images. Le metafore dell’organizzazione, Milano: Franco Angeli 1993

– Richardson Jerry, Introduzione alla PNL. Come capire e farsi capire meglio usando la Programmazione Neuro-Linguistica, Urgnano (BG): Alessio Roberti Editore 2002

– Rosenberg Marshall B., Superare il dolore tra noi, Reggio Emilia: Esserci Edizioni 2013

– Rovatti Pier Ando, Abitare la distanza, Milano: Cortina Raffaello, 2007

– Sclavi Marianella, Arte di ascoltare e mondi possibili, Milano: Bruno Mondadori 2003

Note


 

I vissuti degli Operatori Funebri

Tra vulnerabilità e resilienza

Alessio Grossi

Operatori funebri: il bisogno di ridefinirsi

La figura professionale dell’Operatore dei Servizi Funebri è chiamata a ricentrarsi e ridefinirsi per riaffermare il proprio ruolo, la propria dignità e l’immenso valore sociale che ha.  Per farlo è importante conoscere le tradizioni. Cosa è stato il necroforo nelle epoche e nelle culture passate e quale ruolo ho svolto nelle comunità umane. E’ utile chiedersi come oggi questa figura venga riconosciuta, cosa ci si aspetti e che posizione occupi. Ma è ancora più importante considerare cosa il necroforo può offrire al mondo di oggi.

Diamo un’occhiata alle radici di questa figura. Gli studiosi di antropologia religiosa, quali Mircea Eliade e Julien Ries, si sono dedicati alla comprensione dell’uomo che vive il sacro, inteso come la realtà misteriosa e potente che lo supera. Fin dalla preistoria cogliamo segni del rapporto col sacro, tentativo di trovare un ordine, un ritmo, un accordo, un limite, una protezione, per non farsi travolgere dal sacro stesso.

Il contatto con la morte ha sempre rappresentato per l’uomo una esperienza, forse tra le più forti insieme alla sessualità e alla nascita, di incontro con la potenza autonoma del sacro.

Dai ritrovamenti delle tombe e sepolture si deduce che fin dai primordi i corpi dei defunti erano oggetto di riti. L’archeologia segnala le prime tracce di riti funerari nei ritrovamenti di Qafzeh (grotte usate come necropoli nei pressi di Israele) e nelle sepolture dell’uomo di Neandertal, seguite da quelle del Paleolitico superiore e dal Neolitico.

Le offerte deposte nelle tombe, l’ocra rossa sui cadaveri, la sistemazione delle tombe, le conchiglie inserite nelle orbite oculari, i trattamenti speciali riservati ai crani, sono indici di prassi rituali. Evidentemente non era sufficiente la sepoltura del morto, occorreva operare qualcosa di concreto al corpo, un rito appunto, con lo scopo di ristabilire un ordine e riaffermare di poter essere attivi di fronte alla morte, non solo passivi e in sua balia. La sepoltura dei morti diventava quindi qualcosa che doveva essere fatto per concludere e per riprendere, per dare alla morte quello che le spetta e rimettere la comunità in grado di continuare a vivere. I riti funebri creavano questo confine e probabilmente spettava ai “necrofori primitivi” attuarli.

“Rito” è una parola arcaica del vocabolario indoeuropeo che si è mantenuta presso i popoli indo-iranici e italo-celtici. Nel Rigveda (X, 124, 5) questo vocabolo significa l’ordine immanente del cosmo, cioè le regole che governano il mondo. E’ il dharma, la legge fondamentale inerente alla natura. Da qui deriva il senso di “ritu”, che indica i compiti da svolgere in ogni stagione, in relazione al dharma. L’adempimento dei doveri, nel rispetto dei ritmi della natura, comporta che il mondo continui ad esistere con le sue leggi. E’ compiere quel che è giusto e conveniente fare nel contesto di una data situazione. Questo senso strutturale di quel che è “giusto e conveniente” ha sempre riguardato anche il rapporto con la morte, o meglio il cosa fare con i corpi dei defunti e tutto quanto riguarda i riti di preparazione alla sepoltura.

Se guardiamo alle grandi culture del passato spicca in particolare la cura che gli egizi riservavano al culto dei morti, tanto da poter affermare che l’intera cultura egizia fosse centrata su tema della morte. Jan Assmann , grande esperto del mondo egizio, studiando le loro immagini della morte e i rispettivi riti mortuari, li riconosce come espressione della consapevolezza di mortalità e al contempo del desiderio di immortalità, tanto da conferire all’uomo sostegno in questo mondo. I riti funebri sono fonte di cultura, intesa nei suoi aspetti e motivi migliori, centrali e normativi, la realizzazione simbolica di un vasto orizzonte di senso, senza il quale gli uomini non possono vivere.

Anche nella cultura greca e in quella ebraica troviamo espressa l’importanza della sepoltura come dovere umano e segno di umanità.

Nel Mediterraneo, la pietas prevedeva attenzione e riti particolari nei confronti dei morti. La morte è da sempre un evento doloroso e ineluttabile. Seppellire i morti, e avere cura del loro sepolcro, era una misura di umanità che faceva sentire uniti di fronte al mistero dell’ultimo passo e che, rinnovando l’amore nel ricordo, aiutava a non arrendersi all’inesorabile fluire del tempo.

Nel mondo ellenico, si pensi, per esempio, ad Antigone, l’eroina che contesta il potere e le leggi vigenti, in nome di «leggi non scritte e non mutabili» (Sofocle, Antigone 454-455): in tutta cultura greco-romana la sua figura è esemplare per la misericordia usata verso chi è nostro fratello in umanità, qualunque colpa abbia commesso.

Nella troviamo lo stesso tema nel libro di Tobia, nel quale la sepoltura degli uccisi dalla violenza degli Assiri è presentata come azione gradita a Dio quanto la preghiera innalzata a lui (cf. Tb 1,17-19; 2,1-8; 12,12).

Ritroviamo nella cultura biblica un concetto molto simile a quello di “rito”. Il termine “qadosh”, traducibile con “sacro-santo”, e suoi derivati, come “lehitqadesh”, “rendere santo, santificare”, si trovano impiegati nel Pentateuco per indicare le attività e le cose di questo mondo, riguardanti la sfera umana più che quella divina. “Santificare” significa compiere delle azioni e pronunciare delle parole su degli oggetti o in determinate circostanze, dei riti appunto, per permettere al sacro di diffondersi in modo controllato nel mondo. E’ un “sacrificio” dell’onnipotenza. Così si instaura un ordine, che verrebbe invece distrutto se la santità sconvolgente di Dio venisse totalmente rivelata.

Nel mondo cristiano la sepoltura dei defunti è sempre stata un’opera di misericordia. Il modo in cui si accompagna il morente e in cui lo si seppellisce dopo il decesso esprime il carattere di una civiltà, la sua capacità di guardare in faccia la vita e il suo mistero, il suo senso di solidarietà, la sua capacità di amare: non a caso la nostra epoca, attraversata da un travagliato mutamento dei valori, è contraddistinta anche da un rapporto ambiguo e immaturo con la morte, da un senso poco sapiente dell’accompagnamento dei malati terminali, da un approccio frettoloso e tecnicizzato alle pratiche della sepoltura, non più vissute in prima persona e in famiglia, ma demandate a strutture professionali.

La sepoltura dei morti, quando è vissuta con consapevolezza e partecipazione, ha un effetto positivo su chi la compie: lo porta a riflettere sull’interrogativo della morte; a misurare il proprio limite; a discernere ciò che è essenziale alla vita; a pensare a cosa sono gli altri per noi.

I necrofori si trovano oggi, nel loro lavoro quotidiano, in un mondo in cui sempre più spesso i rituali funebri tradizionali sono ritenuti inutili e in cui ci si aspetta che gli Operatori dei Servizi Funebri semplicemente disbrighino delle pratiche. Viene così completamente sottovalutata, per non dire svalutata, l’enorme portata simbolica e culturale del loro ruolo.

L’uso del rito nelle culture moderne varia notevolmente. Possiamo tuttavia fare una serie di affermazioni, seppur di carattere generale. In primo luogo, l’antiritualismo è ormai evidente in molti ambienti, a causa di vari fattori. Il rito si orienta verso l’equilibrio e la stabilità, ma l’era moderna è un periodo di rapidi cambiamenti, anche nell’ambito delle istituzioni religiose. Il rito attinge a esperienze corporee comuni, delle quali si serve per delineare un cosmo comune; tuttavia, le esperienze della vita oggi sono radicalmente mutate e non vi è neanche un parziale accordo nel modo di percepire il cosmo. Le istituzioni religiose come tali “fanno” molto poco in un mondo scientista, secolarizzato.

Per quanto riguarda nello specifico i riti funebri nel mondo contemporaneo, specialmente in un contesto urbano, assistiamo a molteplici cambiamenti, probabilmente irreversibili e forse inquietanti per l’equilibrio psichico. Molte pratiche vengono semplificate o omesse: la veglia diventa impossibile in un ospedale o in piccoli appartamenti; le condoglianze e i cortei sono praticamente eliminati. Si consideri, ad esempio, l’attuale composizione del morto: all’impurità del passato, si sostituisce il pretesto dell’igiene; al rispetto del cadavere come soggetto, l’ossessione o l’orrore del cadavere come oggetto; alla deferenza della famiglia, l’anonimato di un tributo indifferente.

Allo stesso modo, sono caduti in disuso i segni del lutto ed è sconveniente mostrare la propria afflizione. La gente si cura sempre meno dei propri defunti, che sprofondano nell’anonimato della dimenticanza; si celebrano sempre meno messe per il riposo delle loro anime, mentre la dispersione delle ceneri elimina l’unico possibile supporto fisico per un culto dei defunti.

E’ il tentativo di far scomparire la morte, il vero tabu del nostro tempo. Senza dubbio, l’uomo oggi si sta condannando a un pericoloso vuoto culturale per quanto riguarda i riti e i loro simboli. Possiamo ben domandarci se i nostri funerali, sbrigati sempre più frequentemente nella più stretta intimità, non ci privino pericolosamente di un rito che invece ci aiuterebbe a vivere.

L’Operatore dei Servizi Funebri, il necroforo, si trova in mezzo tra due realtà. Da una parte una tradizione e un ruolo tanto antico quanto la dimensione culturale umana, dall’altra la modernità deritualizzata e in balìa dell’imprevedibilità.

Il suo ruolo affonda le radici in antiche tradizioni, accompagnate da precise prassi rituali, cose che dovevano essere fatte in determinati modi e tempi, ma si trova a lavorare oggi, dove ogni situazione è quasi a sé, dove i familiari rivolgono loro le richieste più varie possibili.

I focus group con gli operatori

Oggetto di questa parte della ricerca è la figura dell’Operatore dei Servizi Funerari come ruolo lavorativo in via di definizione. Dopo aver affrontato il punto di vista storico e quello sociologico, compreso le idee e lo stigma attuale di tale figura, approcciamo qui un punto di vista psicologico. Abbiamo provato ad entrare nel mondo degli Operatori, facendoci raccontare da loro in cosa consista il lavoro, quali difficoltà incontrano, quali eventuali aspetti positivi emergono e come il tutto venga vissuto da loro.

Questa parte di ricerca è avvenuta tramite due “focus group”, preceduti da un incontro di presentazione del tema e delle modalità di svolgimento dei focus, alla presenza di tutti gli Operatori che si sono resi disponibili. I due incontri, di 90 minuti ciascuno, si sono svolti presso una sala riunioni dell’Università di Ferrara e sono stati condotti da Mauro Serio e da Alessio Grossi, insieme a Sara Marchesini, che ha poi trascritto il materiale registrato. Hanno partecipato nove operatori, di cui sette delle Onoranze Funebri “Amsef”, sei uomini e una donna, e due delle Onoranze “Pazzi”, un uomo e una donna. L’età media dei partecipanti è attorno ai quaranta, quasi tutti con diversi anni di esperienza lavorativa come necroforo.

Il focus group è una tecnica di rilevazione per la ricerca sociale basata sulla discussione tra un piccolo gruppo di persone, invitate da uno o più moderatori a parlare tra loro, in profondità, dell’argomento oggetto di indagine.

La sua caratteristica principale consiste nella possibilità di ricreare una situazione simile al processo ordinario di formazione delle opinioni, permettendo ai partecipanti di esprimersi attraverso una forma consueta di comunicazione, la discussione “tra pari”. I soggetti coinvolti definiscono così la propria posizione sul tema confrontandosi con gli altri.

Proprio per queste caratteristiche è stato ritenuto uno strumento adatto alla nostra indagine qualitativa circa la percezione che gli Operatori dei Servizi Funebri hanno del proprio lavoro.

I moderatori dei focus group hanno preparato e seguito una traccia orientativa (allegata a questo testo) che spazia su diversi argomenti: in cosa consiste il lavoro, le relazioni lavorative, le fatiche, le soddisfazioni, lo stress, le loro idee sulla morte e sul morire, il continuo contatto col dolore altrui e con i corpi dei defunti…

I focus sono stati registrati e trascritti. Dopodiché, attraverso l’utilizzo del software di ricerca “Atlas.ti”, i moderatori hanno codificato ogni intervento a seconda della tematica contenuta e del valore, positivo o negativo, espresso nell’affermazione. Una volta codificati tutti gli interventi, sono stati raggruppati per contenuto, creando delle macroaree tematiche.

Dall’analisi dei dati sono emersi tre nuclei tematici:

a) le difficoltà e i rischi correlati al lavoro

b) difese e strategie messe in atto in ambito professionale

c) le risposte adattive di fronte alle difficoltà che aiutano una crescita lavorativa e umana.

Verranno infine presentate alcune proposte per rendere più consapevoli gli Operatori e gli Impresari di come rendere più efficace il loro lavoro e come prevenire i rischi correlati.

Un primo sguardo d’insieme, attraverso una codificazione quantitativa che rileva le percentuali di interventi sullo stesso argomento fatto dagli Operatori, ci offre già un dato importante.

Grafico 5 – Tipologia interventi

Il 45% degli interventi hanno trattato argomenti che hanno a che fare con le difficoltà percepite nel lavoro, a fronte di un 34% in cui si è espressa la positività. Un dato, quest’ultimo, per nulla scontato vista l’opinione comune generalmente negativa che sembra avere la gente circa questo lavoro.

Abbiamo scelto di accostare il gruppo tematico delle “Difese” a quello delle “Positività”. Le modalità difensive raccontate dagli Operatori hanno la caratteristica di essere strumenti consapevoli e utilizzati espressamente a scopo protettivo, quindi possono essere considerate risposte adattive alle difficoltà, cioè competenze positive. Non ci riferiamo qui ai meccanismi di difesa inconsci, in quanto esulano dagli scopi del focus group, anche se ne faremo un accenno più avanti quando parleremo dell’importanza delle difese psicologiche in situazioni di stress continuativo.

Possiamo pertanto affermare che più della metà degli interventi hanno riguardato aspetti considerati positivi da parte dei lavoratori e la loro capacità di far fronte alle difficoltà che incontrano.

Questo dato fa da sfondo alla ricerca. Ci chiede di porre attenzione a questa “positività”, che è da valorizzare e potenziare.

Le difficoltà del lavoro. I rischi da stress continuativo

Nel primo gruppo di codifiche vengono riportate le difficoltà riscontrate dagli Operatori dei Servizi Funebri. Esprimono anche i rischi emotivi, psicologici e relazionali, più o meno consapevoli, verso cui è bene porre attenzione per la buona riuscita del lavoro e la salute dei lavoratori.

Le codifiche qui raggruppate riguardano le difficoltà organizzative e operative del lavoro, la fatica sia fisica che relazionale, il non sentirsi capiti, la gestione delle emozioni difficili causate dal lavoro, il non riuscire sempre a comprendere la sofferenza degli altri, l’essere portati talvolta ad esprimere giudizi netti.

I vissuti relativi a queste situazioni esprimono il sentirsi fragili-vulnerabili, l’attivazione di difese, tra cui spicca la separazione tra il lavoro e la vita familiare e il sentirsi forti rispetto a chi non ce l’ha fatta.

Grafico 6 – Tipologia delle difficoltà

Quanto espresso nei focus group circa il vissuto delle difficoltà, si avvicina molto a quello che nella letteratura scientifica viene identificato come “vissuto post traumatico”. Un evento traumatico è qualcosa di spaventoso a cui un individuo ha assistito, o che ha vissuto direttamente. Si tratta di un evento che provoca inquietudine, spavento e disagio nelle persone sopravvissute o per coloro che ne vengono a conoscenza. Lo stress è un’esperienza comune che genera tensione e la sensazione di essere sotto pressione, e uno stress molto intenso può portare alcune persone a sentirsi sopraffatte e incapaci di agire.

Riteniamo importante presentare, seppur in maniera non approfondita, alcuni elementi che possano essere d’aiuto a scorgere eventuali segni di disagio, sia da parte del lavoratore in prima persona che tra colleghi, sia da parte dell’Impresario, primo responsabile nel creare le condizioni di protezione della salute dei propri dipendenti.

Le persone reagiscono allo stress in modi molto diversi. Se lo stress è forte e continuativo può provocare reazioni simili a quelle di un trauma. Di solito è accompagnato da emozioni molto intense, come tristezza, spavento, colpa, vergogna o rabbia. Questi sentimenti possono attenuarsi con il passare del tempo, se viene meno la fonte stressante, oppure si possono verificare problemi più persistenti.

Uno dei punti di riferimento più utilizzati dal mondo della psicologia per fare diagnosi è il DSM5, il “Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali”.

Nel DSM5 i disturbi correlati a eventi traumatici o stressanti costituiscono un nuovo raggruppamento rispetto alle edizioni precedenti del manuale. Il disturbo da stress post traumatico (DSPT) viene diagnosticato quando sono presenti alcuni fattori, come l’essere esposti a morte reale o minaccia di morte, grave lesione o violenza sessuale, sia come fatto vissuto in prima persona che come assistere ad evento traumatico accaduto ad altre persone, come anche venire a conoscenza di un evento traumatico accaduto a un membro della famiglia o a un amico stretto. Viene riconosciuta come esperienza fonte di stress anche l’essere ripetutamente esposti ai dettagli angoscianti di un evento traumatico (vengono riportati come esempi i medici che raccolgono i resti umani o gli agenti di polizia esposti a dettagli di abusi su minori).

Perché si possa parlare di DSPT occorre che successivamente all’evento traumatico si presentino per un mese o più alcuni sintomi detti “intrusivi”, come ricordi dell’evento che si presentano ripetutamente senza preavviso creando disagio, incubi che riflettono contenuti o emozioni riguardanti il trauma, flashback che fanno sembrare attuale l’evento traumatico, disagio nell’entrare in contatto con tutto ciò che ricorda l’evento (oggetti, suoni, immagini) fino a risposte fisiche (palpitazioni, vertigini o aumento della sudorazione) in risposta a pensieri, ricordi o altri elementi che riguardano aspetti legati al trauma.

Le persone che soffrono di DSPT cercano di evitare per un periodo superiore ad un mese qualsiasi elemento (sia ricordi, pensieri o sentimenti, che luoghi o situazioni) che ricordi l’evento traumatico.

Uno degli effetti immediati è il cambiamento negativo nel pensiero e nelle emozioni, con vuoti di memoria, ricorrenti convinzioni negative riguardo sé stessi o gli altri, diminuzione di interesse o partecipazione ad attività che prima suscitavano entusiasmo, fatica a provare sentimenti positivi, piacevoli o affettuosi. Le conseguenze sono anche sul piano fisico con un sentirsi agitati o irritabili, col mettere in atto comportamenti a rischio, o problemi di concentrazione e difficoltà nel sonno.

Alcuni individui possono avere sintomi dissociativi, sentirsi come se fossero degli osservatori esterni dei propri pensieri o del proprio corpo.[26]

Ad un primo sguardo si è tentati di riconoscere negli Operatori dei Servizi Funebri diversi dei tratti appena descritti. Si è però al contempo portati a non darci peso: in fondo è un lavoro “particolare” e alcuni “disagi” sono più che comprensibili. Il “trauma” cui sono sottoposti non li riguarda direttamente, è la morte di altri, che spesso neanche conoscono. E’ la sofferenza di altri, che incontrano per organizzare il funerale dei loro cari e che magari non incontreranno mai più nella vita.

Il rischio è che questi disagi vengano sottovalutati. Si ritengono come semplice stress, al massimo “particolare” perché legato ad un lavoro diverso da tutti gli altri. Non viene considerata la portata “traumatica” del lavoro a continuo contatto con la morte, i cadaveri, la sofferenza delle persone in lutto (trauma cumulativo).

E’ necessario aggiungere un altro fattore, quello umano esistenziale. Come emerso da diversi interventi, l’operatore dei servizi funebri è costantemente a contatto con la dimensione della “morte in sé” come fatto ineluttabile, con tutta la portata esistenziale che ne consegue sul senso della vita e di come si sta al mondo. Per la maggioranza delle persone, solo in occasione della morte di qualche caro si è posti di fronte a tale questione esistenziale. Per gli Operatori è una realtà quotidiana.

E’ doveroso dunque chiedersi come viene vissuta questa costante esposizione a situazioni costantemente “traumatizzanti”.

Se è vero che è possibile, e anche utile, classificare i sintomi, risulta ancora più efficace vedere come soggettivamente questi sintomi sono vissuti e quale possibilità di senso offrono. Ci viene in aiuto il Manuale Diagnostico Psicodinamico, che proprio di questo si occupa.

Il PDM2, Manuale Diagnostico Psicodinamico, è un manuale che orienta nella diagnosi attraverso il vissuto soggettivo.[27] In questo testo viene riportato che gli individui che hanno vissuto una esperienza traumatica si descrivono, nella letteratura o nei loro diari, come completamente trasformati dall’esperienza e descrivono la loro vita come marcata dal trauma, arrivando a parlare di un’esperienza pre-traumatica e di una post-trauma. Anche in alcuni interventi nei focus è stato raccontato qualcosa di simile:

“C’erano dei giorni che io andavo a casa da lavorare e mi sentivo ancora l’odore sgradevole addosso” (1:3)

“Una volta che entri nella camera mortuaria, anche quando vai a casa, tutti i profumi che senti, sono i profumi della camera mortuaria che ormai te li porti sempre dietro, quindi hai la camera mortuaria sempre in testa, quando giri senti le persone che hanno lo stesso profumo che si utilizza là dentro, in pratica per un periodo non vedi altro che morti” (2:149)

Coloro che non sviluppano un DSPT di solito hanno compreso o elaborato in qualche modo quello che è accaduto, oppure hanno una elevata resilienza. Diversi Operatori hanno espresso di sentirsi cambiati dal lavoro, quasi come rinforzati:

“Sai che dicono che il lavoro ti modifica e che ti entra dentro anche senza volerlo” (1:133)

“Si, temo che mi possa indurire perché ho già visto un cambio; adesso guardo i funerali come se niente fosse, li guardo tranquillamente” (1:137)

“Quelle (le paure) ce le hai all’inizio, dopo diventa normale e per quel che mi riguarda non ci faccio più caso” (2:21)

“(…) io fino a 20 anni fa l’unico morto che avevo visto era mio nonno, poi 20 anni fa ho iniziato a vedere dei morti giorno e notte. Sai quanto lavoro ho portato a casa all’inizio!? Poi dopo un po’ ho detto:” eh no, adesso basta” (2:42)

“(…) si impara stando a contatto con gli eventi e come dicevo prima, stando accanto a loro e ai vecchi, osservando e ascoltando.  Così vedi e impari” (2:81)

Vivere costantemente situazioni altamente stressanti può costituire una sorta di organizzatore psichico, dal momento che modifica gli assunti personali, cioè il proprio modo di vivere le emozioni, di pensare e di lavorare,  nonché la possibilità di dare un senso a quanto si fa.

Un effetto dello stigma sociale di cui gli operatori sono oggetto è il non sentirsi capiti, l’essere consapevoli che il loro lavoro non solo è poco riconosciuto e stimato, ma proprio non è conosciuto.

“Eh no! La gente non sa cosa facciamo” (2:39)

“La gente non ha idea di quel che facciamo, tanti mi dicono: “ma guarda che bel lavoro che fai! Sei sempre in giacca e cravatta e dentro a una macchina!” ma perché mi vedono ai funerali, ma non sanno cosa c’è dietro, loro pensano solo al funerale, ma dietro al funerale ci sono tante altre cose, però loro non lo sanno” (2:40)

Diventano anche testimoni sociali di un cambiamento culturale. Viene notato un impoverimento umano che si manifesta nella fatica a riconoscere da parte della gente che dietro il servizio svolto, c’è una persona.

“Per me invece è cambiato moltissimo. Adesso la gente fa fatica anche a ringraziarti, anche solo a fare un ringraziamento formale. La gente oggi ha proprio un menefreghismo totale” (2:24)

Uno degli aspetti forse più rilevanti è una profonda consapevolezza che è impossibile non essere coinvolti personalmente nel profondo quando si svolge questo tipo di mestiere. Si avverte una sorta di intrusione emotiva.

“Vedi tante realtà, e queste cose a livello psicologico, anche se cerchi sempre di tenerle fuori, qualcosa ti lasciano sempre. Questo è quello che noi viviamo a livello di operatore funebre, che sia nei trasporti, che sia onoranze” (1:16)

“C’è qualcosa che ti entra dentro che purtroppo non riesci a evitare, a me è capitato di piangere” (1:34)

“La mia paura, quando è morto mio papà, era il contrario, era di essere diventato talmente duro, da non saper affrontare la morte di un familiare. Infatti quando è morto mio papà non riuscivo a piangere. Mi dispiaceva talmente tanto. Poi dopo è scattato qualcosa, quando ho visto la scena di mia madre che si è avvicinata alla cassa, e li ho iniziato a piangere e non sono più riuscito a smettere” (1:62)

“Noi cosa siamo? Siamo persone umane con dei sentimenti e delle emozioni, non siamo tutti i giorni uguali. Abbiamo dei giorni in cui siamo più emotivi, altri in cui siamo nervosi, e viviamo la giornata e quello che ci circonda secondo il nostro stato d’animo; non c’è qualcosa di stabile e definito, che fa si che se vedo un bambino o se vedo un vecchio            devo crollare, può essere anche che vedi anche un cucciolo di gatto morto sulla strada e ti fa crollare. Questo perché col nostro stato d’animo siamo tutti i giorni diversi e ognuno di noi è diverso, quindi non possiamo controllarci” (1:72)

“Però, la cosa che più sento è la paura di sbagliare, perché non ho una seconda possibilità, non puoi rimediare e crei un danno alle persone” (2:59)

“Non sono cose che uno può raccontare, sono cose di cui uno fa veramente fatica a parlarne” (2:91)

“A me all’inizio, quando mi dicevano questo qui ha circa la tua età pensavo: “cavoli e se adesso tocca a me, o potevo essere io” (2:123)

L’essere in qualche modo investiti da emozioni difficili da gestire, come raccontato, porta a sentirsi fragili, vulnerabili. In un mondo dove l’emozione è ridotta ad emotività e l’ideale della professionalità si basa sull’esecuzione del protocollo di prassi corrette, non è facile considerare questa sensibilità come una ricchezza che può aiutare a vivere più umanamente questo tipo di lavoro.

“Quando è un evento che ti arriva dalla mattina alla sera, anche se hai la corazza per esperienza, se ti viene a mancare una persona cara, che hai avuto per tanti anni vicino, in quel momento fai fatica” (1:58)

“Ci sono momenti e momenti. Se sei a messa, stai guardando una funzione, è un evento particolare, in quel momento puoi sentire una parola che a livello emotivo ti può mettere a dura prova; perché poi anche come persone abbiamo i nostri momenti, o giornate in cui siamo più vulnerabili” (2:50)

Un discorso a parte è quello delle difficoltà organizzative nel lavoro, che riguardano sia il rapporto tra Impresari ed Operatori che le cose da fare. In ogni ambiente organizzativo ci sono problemi. Per gli Operatori che hanno partecipato ai focus è emersa come prima fatica il trovarsi a dover fare contemporaneamente troppe cose. La complessità del lavoro in sé comporta, in un tempo limitato e circoscritto, molte azioni da compiere e tante relazioni da gestire (uffici, parenti, parroci, cimiteri…).

“Perciò ci sono molte cose da tenere in considerazione e da seguire, e le nostre giornate sono molto piene perché oltre a loro, noi abbiamo a che fare con i carabinieri o la polizia, che se c’è una morte in strada, una morte violenta o una morte a casa, ci chiamano; poi abbiamo a che fare, con le case di cura, con gli scarichi dei cofani e con le imbottiture” (1:9)

“Perciò l’operatore che si occupa dei trasporti, non è che sta seduto e dice agli altri cosa devono fare, ma ha una giornata proprio piena: il telefono suona ogni due secondi, devi dare retta a loro (operatori delle onoranze funebri) e a quelli che ti portano il materiale. Noi parliamo con moltissima gente, tra cui anche i familiari, con i quali ci relazioniamo molto” (1:9)

A volte si fatica a rispondere alle le richieste dei familiari. Altre volte non ci si sente capiti dai datori di lavoro. Ma può capitare anche qualche problema tra colleghi, in particolare con chi è nuovo del mestiere.

“Quindi, logicamente lui (riferito al collega) fa in modo di accontentare il familiare, però a volte ci sono richieste assurde, tipo lo smalto alle unghie, certe acconciature, ma poi siamo noi altri che dobbiamo farle, perciò molte volte…cioè noi non abbiamo una bacchetta magica…” (2:61)

“Facciamo più fatica a interagire con il nostro responsabile (…) ma non perché lui ha un posto di rilievo, è che lui non riesce a capire quali sono i nostri problemi, vuole tenere due piedi in venti scarpe: deve seguire loro (operatori delle onoranze funebri), noi (operatori dei trasporti) e la fioreria” (1:11)

“Un esempio, viene un ragazzo giovane che viene a lavorare, che ha fatto un corso di formazione perché per legge ci vuole, non conosce il lato pratico. Come fai a spiegarli che dobbiamo andare a fare una lettiga che c’è uno che è annegato e non sai come lo troviamo…è questo che voglio dire, non lo puoi preparare. (2:141)

Strategie difensive. Per svolgere al meglio il proprio lavoro

Come si diceva all’inizio di questo lavoro, risulta alta la consapevolezza che, non solo per resistere, ma anche per svolgere al meglio il proprio lavoro, i necrofori devono ricorrere a strategie difensive.

“Perciò bisogna stare molto attenti, perché è un lavoro molto particolare” (1:116)

“Bisogna dividere le cose, perché già è un lavoro particolare, se poi cominci già con quello stato li, sai che non vai in profumeria ma vai in un ambiente dove c’è solo del dolore” (1:20)

“Noi dobbiamo scherzare molto, perché se non lo facciamo questo lavoro ti entra dentro…” (1:42)

“Cerchiamo un po’ di avere due facce, perché se no, davvero, come diceva lui prima, il lavoro te lo porti a casa. Cerchiamo di essere abbastanza obiettivi, sia verso chi sta subendo il lutto, sia durante la vestizione e preparazione della salma, ma appena c’è un piccolo ritaglio di tempo cerchiamo di avere un attimo per mollare un po’ la tensione; ti apparti un po’, prendi un caffettino, scherzi un po’; poi ti comporti con riguardo verso chi sta subendo il lutto” (1:46)

“Per quel che mi riguarda cerco di stare il più distaccato possibile, di non farmi influenzare dalla tristezza” (1:53)

“Bisogna sempre tenere l’asta più alta di quello che è il nostro lavoro, se no veramente questo lavoro qua ti fa andare giù di testa” (2:69)

“E anche noi, in base all’evento che viviamo, cerchiamo un po’ di non lasciarci coinvolgere, perché se no, alla fine della corsa…” (2:108)

“Ecco, diciamo che è questo che dà al nostro lavoro un modo per farlo, che ti permette di non fartelo entrare dentro, di restarne un po’ al di fuori. Naturalmente bisogna lavorare seriamente, perché comunque hai a che fare con una persona deceduta e con i suoi familiari…” (2:146)

“Mettiamo la maschera” (2:147)

Grafico 7 -Difese attuate nel lavoro

Alta risulta la necessità di ricorrere a strategie difensive, diverse tra loro, ma tutte unite dallo scopo di far in modo che il lavoro “non ti entri dentro”.

Viene sentito come fondamentale il bisogno di una netta separazione tra il lavoro e la “vita fuori”, in particolare quella della famiglia, per difendere i propri cari e i propri affetti.

Come due facce di una stessa medaglia, c’è il bisogno di sentirsi “forti” per avercela fatta e al contempo il bisogno di distanziarsi da chi non ha resistito ad un lavoro che ti porta al limite della resistenza. E’ quasi come avere superato una prova iniziatica.

L’incontro con la malattia, e in questo caso con la morte, implica sempre una ridefinizione della propria soggettività e la ricerca di forme nuove di adattamento.[28] Questo accade in buona parte attraverso i meccanismi di difesa, che sono il principale strumento con cui gestiamo i conflitti e gli affetti. Originariamente ipotizzati da Freud, ma studiati e classificati soprattutto da sua figlia Anna, i meccanismi di difesa sono una delle funzioni psichiche fondamentali di adattamento alle richieste e alle restrizioni della realtà esterna, ma anche della realtà interna (ammesso che siano separabili).

Le difese sono risorse dell’Io, processi psichici, che spesso si traducono in comportamenti, che mettiamo in atto più o meno consapevolmente per affrontare situazioni difficili e stressanti.

Possiamo idealmente disporre i meccanismi di difesa lungo una scala di maturità, consapevolezza ed elasticità. Quelle che consentono di gestire al meglio gli eventi stressanti sono chiamate di “alto livello” (affiliazione, altruismo, anticipazione, autoaffermazione, autosservazione, umorismo, repressione e sublimazione).

Quando le risorse personali faticano ad adeguarsi al contesto, aumentano le difese, sempre più inconsce e automatiche. Queste hanno lo scopo di tenere ben separati i pensieri e le emozioni, al costo talvolta di “deformare” la realtà, fino al limite estremo di negarne l’esistenza.

Nel fare i conti con la morte, le funzioni affettive e cognitive fanno ricorso ai meccanismi di difesa, lotta contro l’angoscia e al contempo creazione di nuove modalità di relazione con sé stessi e con gli altri.

Il ricorso a uno stile difensivo più o meno maturo dipende dalle caratteristiche della nostra personalità, dalla sua organizzazione psicologica e dalla propria visione del mondo.

Da quanto emerso dai focus, gli operatori fanno ricorso a difese generalmente mature e consapevoli, col risultato di riuscire a contenere e gestire il disagio e rispondere sufficientemente bene allo stress.

“Cerchiamo un po’ di avere due facce, perché se no, davvero, come diceva lui prima, il lavoro te lo porti a casa” (1:118)

“Poi sì, diciamo che ci controlliamo, che cerchiamo di stare distaccati perché così quando torniamo a casa cerchiamo di evitare” (1:141)

“Cioè, bisogna scindere un po’ le due questioni: a casa hai la famiglia, a casa hai la moglie, i familiari, i figli e portarsi la propria esperienza della giornata lavorativa a casa, vuol dire portarsi anche la tensione e il nervosismo, che quando passi tante ore con i colleghi può capitare che si creino anche situazioni di questo tipo. Per cui il lavoro di per sé a casa non si deve portare, questo vale ancora di più per questo lavoro che è molto particolare” (2:3)

“Anche io cerco di non parlarne a casa, o se succede è proprio raramente, deve essere una cosa pesante tipo un giovane o se mi chiedono. Però cerco sempre di stare sul vago e il più distaccato possibile” (2:17)

A conclusione di questa prima parte, dobbiamo riconoscere che questo tipo di lavoro è altamente stressante sotto diversi punti di vista. Riconoscere i tratti critici e i pericoli derivati dallo stress continuativo è il primo passo per prevenire disturbi negli Operatori. Per pensare ad una eventuale riorganizzazione del lavoro non si può prescindere dall’esperienza e dalla consapevolezza acquisita dai lavoratori. Nessuno meglio di loro sa da cosa ci si deve difendere e come provano a farlo nella loro attività quotidiana.

Le risposte adattive. Crescita umana e lavorativa

Il secondo gruppo di codifiche contiene le risposte adattive, dette anche creative: la crescita nel lavoro e le potenzialità che sono sviluppabili. Qui abbiamo le emozioni positive, il sentirsi competenti, responsabili in prima persona, come anche il contattare la propria fragilità e le risorse che si trasformano in resilienza. Tutti fattori che portano ad una valutazione positiva di sé.

Altrettanto importante è il sentirsi d’aiuto, il comprendere le emozioni degli altri e rispettarle, acquisendo competenze di attenzione nei confronti di chi soffre.

Possiamo dire che il temuto e stigmatizzato mestiere dell’Operatore dei Servizi Funebri è un tipo di lavoro che ti cambia, ti porta ad una maturità, accompagnata da una maggiore consapevolezza di come è fatto l’uomo, capace di contenere anche la fragilità, elemento che oggi viene spesso escluso dall’ideale di vita.

Tutto questo viene percepito dai lavoratori come qualcosa che avviene in maniera “naturale”, come effetto del lavoro stesso. Attingere a queste risorse, diventarne consapevoli al fine di vivere meglio e aumentare la professionalità, è un’occasione per un lavoro più efficace e più gratificante.

Grafico 8 – Positività

Allontanandoci dal patologico, che abbiamo visto non riguardare questa ricerca, ricorriamo a quel ramo della psicologia che si chiama “psicologia positiva”, in quanto si occupa della crescita e dello sviluppo delle qualità e delle potenzialità personali e relazionali.

Per l’argomento che stiamo trattando, non possiamo non considerare la portata traumatica del continuo contatto con la morte e il dolore altrui, ma al contempo dobbiamo riconoscere da parte degli Operatori una buona capacità di resistenza e resilienza.

Facciamo riferimento agli studi di Tedeschi, Park e Calhoun[29] sulla “crescita post-traumatica” (post-traumatic growth). Il processo di crescita in seguito al trauma si esprime nella tendenza delle persone a riportare cambiamenti in positivo in diverse aree: credenze, scopi, filosofia di vita, relazione con gli altri, identità e percezione di sé.[30]

Tutta l’area positiva degli interventi nei focus può essere letta come crescita umana e lavorativa degli Operatori. Mettiamo in parallelo quanto espresso dagli studiosi e quanto raccontato dai necrofori.

La percezione del sé può cambiare nel momento in cui non ci si sente più “vittime” ma persone che hanno superato un trauma (survivor).

“Ora sono contentissimo di essere in questo ambiente e di fare questo lavoro, mi ha cambiato proprio la vita” (2:75)

Considerarsi in questo modo può aiutare le persone a far fronte all’evento ed a favorire la crescita. Il senso di fiducia in sé stessi può aumentare come conseguenza del trauma.

“Ho visto subito il lato peggiore di questo lavoro. Andai a casa euforico, con ancora la puzza dei cadaveri sotto al naso, a mia moglie sembrava avessi sniffato chissà che da gran che ero carico e da li mi sono detto che ce la potevo fare.” (2:74)

Paradossalmente, mentre le persone possono avere una maggiore fiducia in sé stessi e considerarsi più forti, allo stesso tempo possono divenire più consapevoli della propria fragilità e vulnerabilità.

“ (…) in quel momento puoi sentire una parola che a livello emotivo ti può mettere a dura prova; perché poi anche come persone abbiamo i nostri momenti, o giornate in cui siamo più vulnerabili” (2:50)

“Poi logicamente dopo avere visto mia madre fare quel gesto che ha fatto scattare qualcosa dentro di me, e mi ha fatto iniziare a piangere, dopo mi sono tranquillizzato anche io, mi sono detto:” beh, dai allora non sei diventato così insensibile” (1:131)

“Mi sono risentito umano” (1:132)

Un senso di potenziamento nelle proprie capacità come risultato di crescita non comporta che le persone si sentano di fare a meno del supporto sociale, ma, al contrario, le rende più assertive nel chiedere sostegno. Un cambiamento nelle relazioni sociali è spesso riscontrato come conseguenza del trauma: una maggiore vicinanza ed apertura con il partner e la famiglia. Il senso di vulnerabilità, inoltre, può aumentare l’espressione di emozioni, l’accettazione di un aiuto, l’empatia, la compassione e l’altruismo per altri che vivono simili situazioni.

“Si impara stando a contatto con gli eventi e come dicevo prima, stando accanto a loro e ai vecchi, osservando e ascoltando.  Così vedi e impari” (2:642)

“Sarei curioso di vedere come insegnano queste cose, perché a noi non c’hanno insegnato niente, non c’ha mai detto niente nessuno” (2:648)

“Nel momento in cui i parenti vengono in ufficio da noi sono più sballati, non sanno…quindi tu in quel momento, se riesci un attimo a gestire la situazione con tranquillità, riesci a dargli un certo tipo di protezione, ma loro in quel momento non sanno niente. Quindi se gli spieghi bene quel che devono fare e gli aiuti poi loro sono contenti, soprattutto gli anziani” (2:472)

La costruzione di un nuovo significato nella vita è un’altra conseguenza spesso riscontrata come crescita. Vedere quotidianamente come la vita sia costantemente a rischio insegna ad apprezzarla maggiormente. Molti eventi distruggono le assunzioni di base, le convinzioni sulla vita, e questo passaggio è spesso connotato dal dolore. Il trauma può comportare una conversione spirituale o un approfondimento della propria spiritualità nel senso sia di una maggiore vicinanza a Dio, sia di un maggiore impegno nella propria religiosità, sia di una maggiore chiarezza delle proprie credenze. Mentre alcuni intendono il cambiamento spirituale all’interno di uno specifico sistema di credenze religiose, altri riportano una maggiore consapevolezza della propria spiritualità senza utilizzare il linguaggio di uno specifico sistema religioso.

“(La morte) è l’unica cosa giusta che c’è, perché non guarda in faccia a nessuno, non fa differenze. Prima o poi tocca a tutti” (2:440)

“Sembrerebbe una contraddizione, però io non credo nell’aldilà come ce lo mostra la chiesa…” (2:444)

“Ma lo stesso credere nell’aldilà significa che un qualcosa o la tua fede ti ci fa credere, che sia una religione, una corrente di pensiero, comunque alla base ci sta il credere. Ma come facciamo a credere a cosa c’è nell’aldilà se non sappiamo chi racconta cosa c’è nell’aldilà?” (2:446)

“L’importante è vivere bene tutti i giorni, in pace con tutti, e io sono felice e contento di avere fatto tutto il possibile per me, per la mia famiglia, per gli altri, per i miei amici e per chi mi chiede aiuto” (2:452)

D’altra parte il trauma può minacciare le proprie credenze spirituali ed innescare un dialogo spirituale sulla base delle contraddizioni e tragedie della vita. Infine il trauma può rendere le persone più sagge, nel senso di un maggiore apprezzamento per la vita, di un migliore considerazione sulle sue priorità, di un migliore rapporto con gli altri, di un più efficace fronteggiamento delle difficoltà e di un aumentato senso di spiritualità.

“Voglio essere dilaniato da tutto, dalla pioggia, dai vermi, che mangino e si ingrassino, voglio essere seppellito per terra, poi dopo, se si ricorderanno di me, mi tireranno fuori, metteranno quel che è rimasto di me in una cassettina poi mi metteranno nella tomba di famiglia” (2:458)

“Il lavoro a me piace, lo vedo un pochino come una missione (…) proviamo di fare il possibile, con la collaborazione dei colleghi, per poter dare alle persone con cui abbiamo a che fare, una mezz’ora, un’ora, in cui possono vivere un funerale come vorrebbero loro” (2:460)

“E’ un modo come un altro per poter essere utili in un momento particolare a delle persone che stanno vivendo un grosso lutto” (2:462)

“Per questo a me il lavoro piace, non mi crea ansia. A me da ansia la paura di sbagliare a fare il mio lavoro, perché io ho una possibilità sola, se muore una sorella, non posso dire: “vabbè dai, con l’altra farò meglio” (2:464)

“Per me sì, è questo lo scopo del nostro lavoro, mi fa sentire “utile” (2:480)

I necrofori risultano essere consapevoli dell’aiuto che possono offrire. Il grafico riassume in cosa consiste il vissuto positivo degli operatori nei confronti di chi vive una situazione di lutto. Un quarto (25%) è composto dalla comprensione delle emozioni altrui, la capacità di mettersi nei panni di chi soffre, senza lasciarsi travolgere dal dolore, bensì sentendosi in grado di aiutare (23%). Dal sentirsi utili deriva la maggior parte delle emozioni positive (24%), tra cui la considerazione che vale la pena impegnarsi a far bene questo mestiere. Gli operatori dei servizi funebri si riconoscono in grado di attenzione molto concreta verso chi soffre (11%) attraverso lo svolgimento del lavoro. In fondo condividono quotidianamente ciò che accumuna tutti di fronte alla morte, la consapevolezza della fragilità umana (17%).

Grafico 9 – Vissuto interno positivo

Ritorniamo quindi all’importanza della figura del necroforo nel mondo di oggi, in questa cultura contemporanea, dove il rito sembra aver perso senso e dove all’operatore viene per lo più chiesto di svolgere delle buone prassi ed essere pronto ad ogni imprevedibile richiesta.

Gli operatori che hanno partecipato ai focus hanno espresso una consapevolezza sorprendente circa il valore profondamente umano del loro mestiere e l’importanza di quanto di “personale” ci mettano in quello che fanno.

“ (…) la cosa che più sento è la paura di sbagliare, perché non ho una seconda possibilità, non puoi rimediare e crei un danno alle persone. (2:476)

Ogni servizio funebre viene considerato nella sua unicità. Per quanto abbiano prassi stabilite da eseguire e ogni giorno siano a contatto con cadaveri e sofferenza, nonostante il rischio di assuefazione, sanno che ogni situazione è a sé, è una specifica persona e quel determinato funerale è pertanto un evento unico, irripetibile. Per questo deve essere preparato e svolto al meglio.

Al necroforo viene affidato il compito di vivere con responsabilità il suo “fare quel che deve essere fatto” e che in quel determinato momento, in quella determinata circostanza, nessun altro può fare.

“ (…) hai sempre delle situazioni in cui devi dare e fare del tuo meglio” (2:381)

“Si perché noi ci mettiamo la faccia” (2:403)

“Gli risolvi il suo problema” (1:32)

“ (…) cerchi di fare in modo di instaurare un certo tipo di rapporto per cercare di mettere a proprio agio i familiari” (2:66)

“ (…) se mi telefona qualcuno gli dico: non preoccuparti, ti seguo io in tutto, fino alla fine. E dopo mi ringraziano” (2:382)

“Quindi è un modo come per poter essere utili in un momento particolare a delle persone che stanno vivendo un grosso lutto” (2:462)

L’Operatore dei Servizi Funebri è chiamato ad essere “custode” del rito riservato ai defunti, a stare in una tensione, mai risolta, tra le tradizioni antiche e le procedure che la legge richiede, senza perdere di vista il dolore disorientato degli uomini di oggi.

I necrofori, forse inconsapevolmente, offrono al mondo d’oggi, in un momento importante come quello della perdita di una persona cara, la possibilità di ripensare e ritrovare il senso della vita, la qualità dell’esistenza, proprio a partire dalla morte.

Secondo la filosofia esistenzialista di Martin Heidegger e la psichiatria di Karl Jaspers e di Viktor Frankl, la “qualità dell’esistenza” indica che la persona umana è sempre in certo qual modo protesa tra la finitezza, l’effettività della situazione in cui si trova “gettata” e la possibilità del “pro-getto” e della trascendenza. La dimensione del “possibile” viene così a definire strutturalmente l’esistenza umana.[31]

Portato nel nostro contesto, significa riconoscere la realtà della morte, non negarla, non tenerla il più lontano possibile, non farne un tabu. Proprio perché è la realtà più certa che abbiamo, il futuro che attende tutti, il “progetto” che la vita ha pensato per ciascuno di noi. Vivere la dimensione del “possibile” significa poter decidere cosa fare concretamente ora nella vita.

La qualità esistenziale della persona umana indica quindi la sua capacità inalienabile di esercitare la sua “scelta”: “Esistenza (o esserci) – per parlare con Jaspers – non è solo “essere presente”, ma è “essere decidente”, è dunque un essere che continua a decidere ciò che è”.[32]

Nel momento in cui il necroforo sceglie un atteggiamento rispettoso, altamente professionale e profondamente umano, compie con coraggio quello tanti uomini di oggi non riescono a fare.

Di fronte a giovani superficiali, ad adulti con sempre meno strumenti per affrontare i momenti difficili, ad anziani soli, a bambini tenuti a distanza da tutto ciò che ha a che fare con la morte… di fronte al disorientamento contemporaneo… loro sanno cosa deve essere fatto e come si fa. Chi sa trattare la morte, sa cogliere il meglio dalla vita.

Per lo psichiatra viennese Viktor Frankl, l’esistenza è ad un tempo consapevolezza e responsabilità.[33] La responsabilità è strettamente connessa alla concretezza della singola persona e delle irripetibili situazioni in cui viene a trovarsi. Singolarità e irripetibilità sono di fondamentale e costitutiva importanza per comprendere il senso della vita, intesa non in generale, ma nella concretezza del presente. Concetto che si avvicina molto a quello di “rito”, inteso come il compiere la cosa giusta al momento giusto per permettere alla vita di continuare il battito dell’esistenza.

E’ proprio in considerazione della morte, quale limite insuperabile alle nostre possibilità e al nostro futuro, che siamo costretti ad utilizzare il tempo della nostra vita, a non perdere le occasioni che ci vengono offerte.

Di fronte alla vita ne siamo responsabili, rispondiamo a quanto la situazione concreta ci chiede di fare. Da questa prospettiva, il significato non deve essere conferito, ma trovato. “Ciò che l’uomo deve fare” è sempre legato al “dove e quando” egli si trova, alla concretezza di una determinata situazione. Abbiamo visto come fin dalle origini dell’umanità, la cura dei morti e della sepoltura ha caratterizzato la cultura, cioè la capacità di dare un ordine e un senso all’esistenza, sia personale che sociale. Un contributo fondamentale viene offerto dai necrofori, chiamati a mettere in gioco le loro competenze professionali e personali.

“Il nostro lavoro è una cosa particolare, richiede molto tatto, devi avere un savoir faire con le persone che hanno subito un lutto e ti fanno delle richieste” (1:98)

“Questo gli da anche sicurezza, gli dimostri che se lui si appoggia a noi, poi risolviamo e ci occupiamo di tutto” (1:146)

 “Bisogna mettersi anche nei loro panni: che persona vuoi davanti, che ti dia una mano? Vuoi uno che non ti faccia preoccupare” (1:170)

“Questa è una prestazione molte volte irripetibile, allora quando voi parlavate con chi ci rapportiamo principalmente, io credo che per fare questo tipo di lavoro sia necessaria una collaborazione per fare a modo, almeno questo è il mio sistema” (1:385)

Eternità: sogno o illusione?

Il sogno dell’eternità è espressione di un desiderio da sempre presente nel cuore dell’uomo di ogni tempo. Oggi però, confondere sogno con illusione è sempre più frequente. Corriamo il rischio di correre dietro l’illusione dell’eternità, l’idea di non essere destinati a morire. Sempre più spesso si cercano forme per continuare ad esistere in surrogati tecnologici. Un interessante lavoro di Davide Sisto[34], La morte si fa social, racconta come siano già presenti cimiteri virtuali o algoritmi capaci di interagire al nostro posto con i nostri cari quando saremo defunti. Per dare l’illusione di continuare ad esistere.

Dove la religione ha ceduto il posto ad una diffusa spiritualità edonista, alla ricerca del benessere, dello star bene, il necroforo è in grado di non negare la morte ed è in grado di occuparsene, senza perdere di vista la sofferenza. Uno svolgimento corretto, responsabile e al contempo umano del proprio lavoro di necroforo, saper compiere i “riti” dovuti, risulta fondamentale per ri-creare quell’ordine, tanto sociale quanto psicologico, in cui c’è posto tanto per la morte quanto per la vita che continua. Questo ha un valore sociale immenso, che i necrofori continuano ad offrire anche al mondo di oggi.

Sogno dell’eternità non è fuga dal presente, dal reale. Non è “mascherare” la morte da vita, travestire i morti da vivi per alleviare la nostra angoscia o cercare illusioni di continuità.

E’ invece riconoscere la morte per dare valore alla vita. E’ riscoprirsi responsabili, capaci di condividere con gli altri, essere in grado di proteggere chi si ama e desiderosi di continuare a progettare la propria esistenza.

Oltre gli standard formativi professionali

In conclusione, si possono prospettare alcune proposte indirizzate in primo luogo a chi ha una responsabilità formativa ed organizzativa nel settore.

Sarebbe auspicabile rivedere i corsi di preparazione.

“Un esempio, viene un ragazzo giovane che viene a lavorare, che ha fatto un corso di formazione perché per legge ci vuole, non conosce il lato pratico. Come fai a spiegarli che dobbiamo andare a fare una lettiga che c’è uno che è annegato e non sai come lo troviamo…è questo che voglio dire, non lo puoi preparare” (2:584)

Al di là di quanto richiesto dalla Legge come standard professionale, potrebbe essere utile alle nuove “leve” di Operatori anche una formazione alle dinamiche relazionali, alla capacità di ascolto professionale. Essere empatici nel dolore non significa essere travolti dalla sofferenza, ma avere gli strumenti per comprendere e rispettare lo stato emotivo dell’altro e, nel caso del necroforo, saper operare decidendo i tempi e le modalità più adatte. Questo tipo di formazione aiuterebbe a riconoscere e gestire anche tutte le emozioni interne al necroforo stesso, con conseguente diminuzione di stress e rinforzo della capacità professionale.

E’ fondamentale, sia come prevenzione al disagio che come attenzione nei confronti dei lavoratori, porre attenzione ai pericoli derivati dallo stress continuativo.

“Vorrei spezzare una lancia. La nostra “fortuna”, come vedi, siamo tutti giovani, almeno la maggior parte, è che questo lavoro qui non ti deve entrare in casa: in poche parole, io quando timbro, dalla mattina fino a quando timbro per andare a casa, questa timbratura fa scattare in me una cosa che fa sì che tutto quello che succede a lavoro resta lì, fino a quando non torno il giorno dopo e incontro i colleghi; a questo punto si riattiva qualcosa nel cervello e torno sul lavoro” (1:152)

Abbiamo voluto descrivere i sintomi e i rischi proprio per essere sempre consapevoli che queste forme di disagio, che rischiano di diventare pervasive in tutti gli ambiti della vita, non scattano da un momento all’altro, ma passo dopo passo, pensiero su pensiero, stress su stress fino arrivare al disagio vero e proprio. Da parte di tutti, lavoratori, colleghi e impresari, è necessario un occhio di riguardo.

Gli operatori che hanno partecipato a questa ricerca hanno dimostrato di avere ottime competenze, individuali e di gruppo, acquisite sul campo. L’aspetto più importante di queste caratteristiche è il loro essere integrate. Fatica e soddisfazione, responsabilità personale e sostegno del gruppo, far bene il proprio lavoro per lasciarlo fuori dalla famiglia, sono solo alcuni esempi di quanto abbiamo visto. Sono aspetti così importanti per la salute psicologica e relazionale che è bene riconoscerli e far di tutto per rinforzarli.

In modo particolare ci permettiamo di sottolineare l’importanza del gruppo, della squadra. A più riprese nei focus è emerso come sia concretamente una risorsa.

“E’ un lavoro in cui per riuscire a esprimere il meglio ci deve essere una collaborazione tra tutti, non è un lavoro che si può fare da soli, perché se sbagli non hai mai una seconda possibilità, si ha solo quell’occasione lì per fare bene, quindi ho bisogno della collaborazione di tutti” (1:389)

“Non sono cose che uno può raccontare, sono cose di cui uno fa veramente fatica a parlarne. Noi ne parliamo tra di noi, perché sicuramente tra noi ci riusciamo a capire, anche gli stati d’animo che uno prova, ci facciamo spalla tra colleghi” (2:56)

Il gruppo crea senso di appartenenza a fronte dello stigma sociale, che invece tende alla separazione, all’isolamento. Vista la particolarità del lavoro, la specificità di quello che si fa e di cosa si prova nel farlo, risulta difficile parlarne e farsi capire all’esterno. Nel gruppo ci si sente capiti, si può parlare di tutto o anche tacere, aiutarsi, sostenersi.

L’esperienza dei focus è stato un altro modo per vivere la positività del gruppo. In diversi hanno espresso il desiderio di poter avere altre occasioni come queste. Momenti di crescita, di sfogo e di soluzione condivise.

“Sarei curioso di vedere come insegnano queste cose, perché a noi non c’hanno insegnato niente, non c’ha mai detto niente nessuno” (2:648)

“Il fatto di trovarsi, di esternare le proprie emozioni, le proprie esperienze, non scherzando e ridendo come facciamo noi, ma da un’ottica diversa, è stato molto bello. Perché poi noi abbiamo questo meccanismo interno, nostro, di “sopravvivenza”, però poter parlare con persone in cui non troviamo la morbosità che c’è di solito dall’altra parte. (…) Invece qui è diverso, c’è il lato di quel che la mente umana può vivere e può sentire” (2:690)

“Poi normalmente, chi lo dice o lo fa per ridere, chi sul serio, ma quando le persone ti vedono si toccano per scaramanzia, e questo ti fa capire che loro pensano che questo sia un lavoro un po’ così… invece già il fatto di avere della gente che impiega il proprio tempo per ascoltare quello che noi gli raccontiamo, già questo mi fa sentire importante. Poi non si interessa tematiche solite, capisce che non siamo solo dei beccamorti” (2:694)

Infine resta doveroso sottolineare la positività sociale della figura professionale dell’Operatore dei Servizi Funebri. Occasioni come questa ricerca, al momento unica nel panorama nazionale, oppure convegni o altre forme di visibilità, sarebbero opportune sia per un giusto riconoscimento di una figura e di un ruolo che svolge un lavoro con una grande ricaduta sociale, sia perché può permettere la tematizzazione della morte, tabu contemporaneo perché ci rimette di fronte alla vita e alla responsabilità che abbiamo verso di essa.

Aree tematiche di indagine

Focus Group operatori

Mauro Serio,  Alessio Grossi, Sara Marchesini

  • Lavoro e relazioni lavorative
    • Con chi interagite (colleghi, superiori, familiari, parroci, … ) e quali sono le interazioni più “faticose” e quelle più “facilitanti”?
    • Quali decisioni prendete autonomamente e a quali decisioni dovete accettare senza poter discutere?
    • Di quali aspetti del lavoro vi sentite direttamente responsabili?
    • Ci raccontate un’esperienza che avete avuto lavorando con una collega?
    • Che differenze hai notato tra il modo di lavorare degli uomini e il modo di lavorare delle donne?
  • Soddisfazione e fatica nel lavoro
    • In ogni lavoro ci sono momenti di soddisfazione e momenti di fatica. Ci   raccontate un episodio in cui vi siete sentiti soddisfatti e uno in cui vi siete trovati in difficoltà o a disagio?
    • Per ogni lavoro ci sono persone più adatte e altre meno. Chi hai conosciuto che non è riuscito a rimanere a fare questo lavoro?   
  • Stress lavoro-correlato
    • Quando sentiamo che le richieste o esigenze poste dal lavoro superano le nostre possibilità (orari, impegni e/o prestazioni) ci sentiamo a disagio. Questo succede a tutti. Nel vostro lavoro quanto succede?
    • Cosa vorreste proporre per migliorare il lavoro per voi?
    • Cosa vorreste proporre per migliorare il servizio ai clienti?
  • Stati emotivi
    • Le emozioni sono quei segnali interiori che in determinate situazioni (stimoli) ci spingono a reagire in certi modi (rabbia, gioia, paura, disgusto, ammirazione, noia, delusione, tristezza, ecc.). Quali emozioni provate al lavoro e in quali situazioni?
    • Condividere i propri stati d’animo, le soddisfazioni o le fatiche, è spesso utile per affrontare le difficoltà e per mantenere salde relazioni significative. Con chi parlate delle vostre soddisfazioni e fatiche nel lavoro? Con chi invece non ne parlate e per quali motivi evitate di farlo?
    • Il lavoro è una parte molto importante della vita. Le persone fanno anche sogni in un qualche modo, a volte anche strano, collegati al lavoro. Quali sogni collegati al lavoro vi ricordate?
    • Del vostro lavoro non si parla tanto ed è abbastanza “tabù” come argomento. Secondo voi cosa pensano le altre persone del vostro lavoro?
  • Sulla morte e il morire
    • Ogni persona in determinati momenti pensa alla morte e si immagina qualcosa relativa a cosa succede dopo. Cosa pensate della morte e di cosa succede dopo?
    • Il vostro lavoro vi mette in contatto continuamente con la morte. Questo non è un fatto piacevole e produce pensieri spiacevoli. Naturalmente siamo orientati, per sopravvivere, ad allontanarci dai pensieri spiacevoli. Quali strategie utilizzate per far fronte ai pensieri di morte che il vostro lavoro naturalmente vi stimolerebbe a fare?
    • A volte il pensiero del “morire” appare anche più spiacevole del pensiero della morte stessa. Cosa pensate immaginando il morire di un vostro caro, addirittura di voi stessi o al limite di un animale a cui tenete?
  • Sul dolore degli altri e sul lutto
    • Gli esseri umani sono naturalmente empatici, cioè tendono a condividere gli stati d’animo delle persone, e non solo delle persone, con cui si relazionano. Questo significa che quando ci relazioniamo con persone positive e piacevoli nel modo di fare usufruiamo di questi loro stati d’animo. Anche quando ci relazioniamo con persone tristi e addolorate siamo investiti dal loro stato d’animo. Quali strategie utilizzate per far fronte a questa situazione?
    • Ogni professionista che si relaziona con il dolore di una persona, che sia   infermiere, psicologo, parroco e anche voi, deve assumere un atteggiamento comprensivo e partecipe, nello stesso tempo deve riuscire a non farsi travolgere dalle emozioni dell’altra persona. Assomiglia alla maschera dell’attore, come se si fosse costretti a recitare una parte. In che modo vi aiutate a farlo e chi nel lavoro o nella vita vi ha aiutato ad impararlo? 
  • Sui luoghi e sui corpi
    • L’ambiente di lavoro è sempre fondamentale per la qualità del lavoro. Purtroppo molti lavori devono essere svolti in luoghi disagevoli – un operaio in fonderia, un bracciante agricolo in piena estate, un addetto al macello, ecc. Anche i luoghi che frequentate per lavoro possono creare disagio. In quali vi sentite più o meno a disagio e che cosa in particolare vi fa sentire a disagio?
    • La vestizione vi mette direttamente a contatto con i corpi delle persone defunte. Quali sono le situazioni più spiacevoli e difficili che dovete affrontare e in che modo le affrontate.
    • Presentare il corpo della persona deceduta ai parenti spesso ha grande importanza. E’ l’ultima volta che i parenti vedono i loro cari. Può essere gratificante deceduta, oppure di grande frustrazione quando i parenti hanno reazioni negative e non apprezzano il lavoro fatto, magari molto difficile per le condizioni del corpo. Quali esperienze avete avuto in merito?

Opere citate

– Altomonte Alfredo, Elaborazione del lutto e crescita post-traumatica nella prospettiva di Viktor Frankl, in Pesci Furio  (a cura di)  Alla ricerca del senso perduto ,Roma: Aracne, 2018

– American psychiatric association, Comprendere i disturbi mentali, Milano:Raffaello Cortina, 2018

– American psychiatric association, DSM5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano: Raffaello Cortina, 2014

– Ariés Philippe., Storia della morte in occidente, Milano: BUR, 2015

– Assmann Jan, La morte come tema culturale, Milano: Einaudi, 2002

– Bruzzone  Daniele, Viktor Frankl. Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Roma: Carrocci Faber, 2012

– Campione Francesco, Lutto e Desiderio. Teoria e clinica del lutto, Roma: Armando Editore, 2012

– Eliade Mircea (a cura di), Dizionario dei riti, Rimini: Jaka Book, 2018

– Frankl Viktor E., Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia: Morcelliana, 2005

– Frazer James , La paura dei morti nelle religioni primitive, Milano:  Il Saggiatore, 2016

– Jaspers Karl, La filosofia dell’esistenza, Roma: Bompiani, 1967

– Léon Dufour Xavier , Dizionario di teologia biblica, Torino: Marietti, 1990

– Lingiardi Vittorio, Diagnosi e destino, Milano: Einaudi, 2018

– Lingiardi Vittorio, McWilliams Nancy (a cura di), PDM2 Manuale Diagnostico Psicodinamico, Milano: Raffaello Cortina, 2018

– Otto Rudolf, Il sacro, Milano: SE, 2009

– Ries Julien, Le origini delle religioni, Rimini: Jaka Book, 2012

– Sisto Davide, La morte si fa social, Milano: Raffaello Cortina, 2018

– Tedeschi R. G., Park C. L., Calhoun l. G., Posttraumatic growthPositive transformations in the aftermath of crisis. Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates Publishers, 1998

– Tedeschi R. G., Shakespeare-Finch J., Taku K., Calhoun L.G., Posttraumatic growth: Theory, research, and applications. New York: Routledge, 2018

– Testoni Ines (a cura di), Vedere oltre. La spiritualità dinanzi al morire nelle diverse religioni, Milano: Lindau, 2015

Note


[1] Hanno anche partecipato attivamente alla ricerca i responsabili delle agenzie funebri di Ferrara AMSEF, nella figura dell’amministratore unico Paolo Panizza e PAZZI, nella figura di una delle titolari, Michela Pazzi; entrambi hanno fornito descrizioni accurate sul funzionamento e sulla gestione di queste particolari realtà imprenditoriali. L’università degli Studi di Ferrara, invece, ha curato su un piano scientifico, la conduzione della ricerca, che ha visto partecipare attivamente al tavolo di lavoro: la prof.ssa Paola Bastianoni, in qualità di coordinatrice scientifica del progetto, il dr. Mauro Serio, che ha svolto un ruolo centrale nell’analisi e nella codifica delle interviste assieme al dr Alessio Grossi e alla dr.  Gisele Ronga. Infine, ma non per ordine di importanza, hanno contribuito in maniera significativa alla raccolta dei dati, effettuando le interviste, partecipando ai focus e trascrivendo verbatim le une e gli altri, le tesiste dell’Università degli studi di Ferrara Sara Marchesini ed Elisa Segato, la dott.ssa Carmela Genovese, vincitrice del bando Sara Cesari del Master “Tutela, diritti e protezione dei minori” nell’anno 2016. Si ringrazia inoltre Alessandra Chiaromente che ha contribuito al lavoro di editing di questo volume e aggiornato il sito “Uno sguardo al cielo” sempre in modo puntuale e competente.

[2] Serge Latouche, La scommessa della decrescita,  Milano: Fentrinelli 2007

[3] Philippe Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Roma: Laterza 1980

[4] Si vedano ad esempio le innumerevoli rappresentazioni cinematografiche e letterarie che attribuiscono a questa figura appellativi scaramantici.

[5]  Su questa parte di ricerca è stato prodotto un filmato a cura di Paola Bastianoni e Gisele Ronga presentato al convegno “Il sogno dell’eternità. Il necroforo tra imprevedibilità e rito”, tenutosi a Ferrara il 2 dicembre 2018. Il video è stato poi pubblicato sul sito «Uno sguardo al cielo», che vi invitiamo a guardare:

< https://youtu.be/bkET9EjCUl8 >

[6] Massimiliano Tarozzi, Cos’è la Grounded Theory, Roma:Carrocci 2008

[7] Le interviste sono state rese anonime mediante criteri di codifica e classificazione che hanno mantenuto intatto solo il riferimento alla fascia di età. Alle interviste e ai singoli enunciati, in fase di codifica, sono state assegnati numerazioni specifiche. Per evitare appesantimenti del testo, successivamente i criteri di codifica e classificazione non verranno riportati.

[8] Edgar Morin, L’uomo e la morte, Trento:Edizioni Centro Studi Erickson,  2017

[9] Eugenio Borgna, Le emozioni ferite. Milano: Feltrinelli 2010, ed. digitale capitolo “Alla ricerca delle emozioni perdute”

[10] Leslie S. Greenberg, Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata, Roma: Sovera Edizioni 2017, ed. digitale capitolo “Che cos’è l’emozione”

[11] Gregory Hickok, Il mito dei neuroni specchio: comunicazione e facoltà cognitive, Bollati Boringhieri 2015, ed. digitale capitolo “Nati per imitare?”

[12] «Chi parla, anche se è il più “ospitale” dei filosofi, o semplicemente il più tollerante degli uomini, per il fatto stesso che ha preso la parola e insomma l’ha spesa, si è collocato in qualche modo nel luogo dell’assimilazione, ha già messo in movimento una retorica dell’alterità. Nessuno può mai davvero parlare per l’altro. Però parla. Parliamo. Scriviamo. Ci diamo da fare coi discorsi. Siamo convinti che, facendo così, non ci limitiamo a un’opera di consolazione. E ne siamo persuasi perché ci siamo resi conto che l’alterità, già questa sola parola, chiede di essere detta, propone alla riflessione – del filosofo come di ciascuno – una questione di dicibilità, un modo di rappresentazione discorsiva: una retorica, questa volta nel senso “buono” dell’arte del dire. » Pier Ando Rovatti, Abitare la distanza, Cortina Raffaello, 2007 ed. digitale capitolo “Retoriche dell’alterità”   

[13] Marshall B. Rosenberg, Superare il dolore tra noi, Reggio Emilia: Esserci Edizioni 2013, p. 23-25

[14] Daniela Bonetti, Stress lavoro-correlato: definizione e modelli causali reviews, in «Giornale italiano di medicina del lavoro ed ergonomia» 33 (2011) n.3 supplemento 2, p. 332 <http://www.bollettinoadapt.it/old/files/document/215302012_Bonetti.pdf>

[15] Gareth Morgan, Images. Le metafore dell’organizzazione, Milano: Franco Angeli 1993, p. 22

[16] James G. March, Herbert A. Simon, Teoria dell’organizzazione, Milano: EtasLibri 1995 p. 2

[17] “Disposizioni concernenti l’organizzazione e gli standard formativi essenziali per la formazione del personale delle imprese che esercitano attività funebre – L.R. 30 giugno 2003, n. 12 e L.R. 29 luglio 2004, n. 19” <http://bit.ly/2sdaSPu

[18] Personale che esercita l’attività funebre, « Regione Emilia Romagna – Formazione Regolamentata » (30 gennaio 2014) <http://formazionelavoro.regione.emilia-romagna.it/formazione-regolamentata/approfondimenti/profili-regolamentati/profili/personale-che-esercita-lattivita-funebre

[19] Consuelo Casula, I porcospini di Schopenhauer, Milano: Franco Angeli, 2012 p. 170

[20] Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Milano: Bruno Mondadori 2003  p. 98

[21] Jerry Richardson, Introduzione alla PNL. Come capire e farsi capire meglio usando la Programmazione Neuro-Linguistica, Urgnano (BG): Alessio Roberti Editore 2002, ed. digitale, Capitolo “Come parlare il linguaggio verbale dell’altra persona”

[22] Russ Harris, La trappola della felicità, Trento: Edizioni Erickson 2010, p. 71

[23] Malcolm Gladwell, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti. Milano: BUR 2009, p. 302

[24] Diego Carnevale, Storia di un mestiere qualunque: l’arte dei beccamorti a Napoli in età moderna  «Quaderni storici» 47 (2012) n.141,  p.832

[25] Erving Goffman, Stigma. L’identità negata, Verona: Ombre Corte Editore 2003, p. 15

[26] Massimo Clerici (a cura di), DSM5 e APS, Comprendere i disturbi mentali, Milano: Raffaello Cortina 2018

[27] Lingiardi, McWilliams, PDM2, Milano: Raffaello Cortina 2018

[28] Vittorio Lingiardi, Diagnosi e destino, Torino: Einaudi 2018

[29] Tedeschi, R. G., Park, C. L., & Calhoun, L. G., Posttraumatic growthPositive transformations in the aftermath of crisis. Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates Publishers 1998;

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[31] Bruzzone D., Viktor Frankl. Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, roma: Carrocci, 2012

[32] Jaspers K., La filosofia dell’esistenza, Milano: Bompiani, 1967

[33] Frankl V., Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia: Morcelliana, 2005

[34] Davide Sisto , La morte si fa social, Milano: Raffaello Cortina, 2018

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