Anni dopo mi dissero di averla vista per l’ultima volta mentre imboccava quel viale cupo che conduceva alle porte del Cimitero dell’Est. Faceva scuro e un vento gelido del nord trascinava una volta di nubi rosse sopra la città. Camminava da sola, tremando di freddo e lasciando una scia di passi incerti sul manto di neve che aveva cominciato a cadere a metà pomeriggio. Arrivata alle soglie del camposanto, la ragazza si fermò un istante per riprendere fiato. Un bosco di angeli e croci si insinuava da dietro i muri. Il puzzo di fiori morti, calce e zolfo le lambì il volto, invitandola a entrare. Si disponeva a proseguire il cammino quando una fitta di dolore si fece strada nelle sue viscere come un ferro rovente. Si portò le mani al ventre e respirò a fondo, resistendo alla nausea. Per un istante interminabile ci furono soltanto l’agonia e la paura di non riuscire a fare un altro passo, di crollare a terra di fronte al cancello del cimitero e di essere trovata lì all’alba, abbracciata alle inferriate come una statua di fiele e di brina, con il figlio che portava in grembo intrappolato senza rimedio in un sarcofago di ghiaccio. Sarebbe stato così facile abbandonarsi lì, stesa sulla neve, e chiudere gli occhi per sempre. Però sentiva pulsare quell’alito di vita nelle viscere, un alito che non voleva spegnersi, che la teneva in piedi, e capì che non si sarebbe arresa né al dolore né al freddo. Riunì forze che non aveva e si alzò di nuovo. Lacci di dolore le si annodavano nel ventre, ma li ignorò e accelerò il passo. Non si fermò finché non si fu lasciata alle spalle il labirinto di sepolcri e statue ammuffite. Soltanto allora, alzando lo sguardo, sentì un soffio di speranza quando vide ritagliarsi nelle tenebre del crepuscolo la grande porta di ferro battuto che conduceva alla Vecchia Fabbrica di Libri.

(Da “La città di vapore” di Carlos Ruiz Zafòn)

Ancora una volta Zafòn ci regala la suggestione del contrasto tra la vita e la morte. Ci sono cammini che salvano. Ci sono libri che salvano. Se non da una morte fisica, da una morte spirituale. Ci sono storie che sono capaci di infondere speranza, anche quando i loro autori ci hanno lasciati. Zafòn mi fa sempre questo effetto. In una cornice austera come quella di un cimitero, in cui a confondersi sono solo le ombre ed i silenzi, ecco che compare la figura di una donna qualsiasi, che cerca di combattere il freddo e il dolore di una gravidanza compromessa per raggiungere una fabbrica di libri. Per lei, la salvezza. Ancora una volta non è la storia in sé a colpire, anche se Zafòn sa costruire intrecci in maniera magistrale, ma l’anima che si nasconde dietro ad una storia di dolore. Molti dei racconti di questo autore ruotano attorno al Cimitero del Libri dimenticati, un luogo sotterraneo e nascosto che raccoglie i libri censurati, rinnegati, libri che per un qualche motivo nascondono messaggi che non devono essere rivelati. Questi libri vengono qui conservati e, anche se in un mondo parallelo e oscuro, riprendono vita. Una splendida metafora per dire che non sempre la morte di qualcosa o di qualcuno sancisce la fine. La donna dolorante e infreddolita giunge alla fine delle sue forze, ma viene invasa dalla speranza di essere arrivata in un luogo sicuro. I libri censurati non vengono distrutti, ma conservati, a prezzo della propria vita, perché qualcuno ne possa riconoscere il valore e tramandarlo, magari in un altro tempo e in un altro luogo. Questi racconti insegnano che esiste un tempo oltre il tempo. Che possiamo rinascere e rivivere attraverso le storie e le parole. Che il tempo ritorna.

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