Partiamo dalla fine

La morte è un’ usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare. J.L. Borges

Partiamo dalla fine perché è di questo che si occupa questa ricerca: cosa succede dopo la morte e che tipo di lavoro svolgono gli operatori che si occupano di quello che succede dopo, con quali professionalità e stati d’animo, con quali paure e soddisfazioni.

Ci sono diversi aspetti che dopo la morte ogni società di ogni tempo ha dovuto affrontare:

 come e dove devono essere recuperati i corpi, come e dove trasportarli, come e dove trattarli;

 come devono essere organizzati e allestiti i riti per il commiato;

 come devono essere gestiti i corpi, quali problemi sorgono nella loro gestione e quali cure e attenzioni si devono avere;

 come si interagisce con i vivi, i dolenti, coloro che sopravvivono e devono affrontare le problematiche connesse alla perdita e al lutto;

 come vivere e lavorare nei luoghi dedicati alla morte: dai laboratori per il trattamento delle salme agli obitori, dalle sale del commiato ai cimiteri;

 quale spiritualità e religiosità, quali miti e scaramanzie accompagnano la morte e chi per lavoro è costantemente in contatto con i morti e la morte;

 quali strategie psicologiche e comportamentali attivano chi lavora con i morti e i sopravvissuti per affrontare al meglio le attività, tutelare se stessi e i propri cari dagli effetti del costante contatto con i morti e con il pensiero della morte.

La fine ha quindi significato per noi l’inizio di questa ricerca, ha evidenziato le domande a cui vorremmo cercare di proporre una risposta, gli ambiti che vorremmo indagare e conoscere.

Di questi aspetti si sono da tempo occupate varie discipline: filosofia, psicologia, sociologia, antropologia e abbiamo constatato che il tema è stato affrontato anche dai media, dal cinema come dalla letteratura e dalla poesia.

L’uomo e la morte

“Persino il bambino, persino il «primitivo», persino lo schiavo, come dice Euripide, pensano alla morte e ne hanno orrore. Un orrore al tempo stesso fragoroso e silenzioso, che rispunterà con il suo doppio carattere per tutto il corso della storia umana.” E. Morin

La nostra ricerca pensiamo debba partire da una seppur breve riflessione sul rapporto tra l’uomo e la morte, e pensiamo che sia utile svolgere questa breve riflessione incentrandola su uno dei più significativi lavori relativi a questo tema: Edgar Morin, L’uomo e la morte, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, ebook, 2017 (Prima edizione in lingua originale 1951)

Edgar Morin affronta il tema della morte partendo da un fatto incontestabile: seppur consapevoli che la morte è un dato certo, incontrovertibile e inevitabile, gli uomini di fronte alla morte sono terrorizzati e ne hanno orrore. Questo orrore incorpora tre aspetti: il dolore della perdita, il terrore del corpo che si decompone e il pensiero ossessivo della morte. Morin nella sua riflessione individua un filo conduttore che unisce dolore, terrore e ossessione: la perdita dell’individualità. Solo il riconoscimento dell’individualità del morto, sostiene, ci fa provare il dolore della morte: più il morto era vicino, intimo, familiare, ovvero unico, più il dolore è acuto. Basta riflettere sulle nostre conversazioni quotidiane, o su quanto viene riportato sui social: la morte di un attore, di una persona famosa o del nostro vicino di casa ci tocca molto di più della morte di 100 siriani a causa dei bombardamenti, con la prevedibile indignazione di chi vorrebbe sensibilizzare sugli orrori della guerra. In che modo l’uomo affronta questo terrore? Principalmente in due modi: ipotizzando e credendo che la propria individualità sia mantenuta oltre alla morte, e solitamente questo è uno dei principali temi di cui si occupano le religioni, oppure laicamente ipotizzando e credendo che la sua individualità sia riempita di senso integrandosi con una individualità più ampia: la famiglia, la comunità, la nazione, l’umanità intera o addirittura l’intero ecosistema della terra. La mia morte mi appare più accettabile se immagino che esista una nuova vita per me nell’aldilà o almeno una nuova vita integrandomi nella storia dei miei discendenti o nella mia comunità o nella natura. Il progresso dell’umanità nei secoli ha portato sempre più l’uomo a essere individuo, ma questo lo ha messo in diretto conflitto con la propria specie: io uomo mi occupo di me stesso e subisco sempre meno le pressioni dei miei istinti impressi in me dall’evoluzione della mia specie. Mentre gli animali sono pienamente assoggettati alla esigenze di tutela della specie, quindi sono logicamente ciechi alla morte perché la loro morte garantisce la sopravvivenza della specie nella rigenerazione continua degli individui, l’uomo che si libera dagli imperativi istintuali del suo essere animale, smettendo in parte di ubbidire ciecamente alle imposizioni date dalla propria specie, si individualizza e in questo acquisisce coscienza di sè come individuo separato dalla propria specie. Questo ha la contropartita di far perdere all’uomo-individuo la cecità tipica degli animali riguardo alla loro morte naturale. Mentre ogni animale vive ignorando la propria morte l’uomo perdendo questa cecità riconosce la propria morte e ne è terrorizzato. Questa consapevolezza avviene solo in particolari momenti, per buona parte del tempo della propria vita, durante le quotidiane attività, rimane cieco di fronte alla propria morte evitando così che il pensiero della morte possa diventare per lui una ossessione. Il lavoro dei necrofori si muove su questo sub strato sociale e psicologico dove i riti del commiato, le cerimonie di addio, i funerali e le sepolture o cremazioni si devono confrontare con questo bisogno dei sopravvissuti non solo di sanare una perdita estremamente grave e dolorosa, ma anche di superare l’orrore di trovarsi faccia a faccia con la morte e di dover trovare un modo per mitigare questo orrore.

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