La narrazione riportata di seguito è la sintesi di un incontro di consultazione psicologica avvenuta in uno dei primi incontri virtuali della piattaforma #ilsocialenonsiferma erogata dal Master, Tutela, diritti e protezione dei minori dell’Università degli Studi di Ferrara. E’ un Progetto Sperimentale Nazionale nell’ambito dei servizi per minori che nasce come supporto e condivisione per operatori del settore.

Si muore anche da giovani. Si muore scappando da una comunità la notte di San Silvestro, per andare a casa. Si muore sbandando su un auto troppo veloce . Si muore perché a quell’età ci si sente immortali.

Chi resta . Resta in comunità un’educatrice in un’attesa senza ritorno . Resta in comunità straziata dal senso di colpa. Straziata dal vuoto di chi l’ha lasciata lì prima : mesi senza supervisione, senza coordinamento, senza qualcuno che potesse indicare un metodo, una risposta da dare a quei ragazzi furenti per non sentirsi impotente. In quei lunghi mesi giovani educatori sono stati lasciati soli con ragazzi poco più  giovani di loro , arrabbiati, pronti alla fuga dal nulla. Il nulla non conforta nessuno, non crea radici, non genera legami. Il Natale,si sa, è un periodo orribile per chi vive in comunità.Il Natale sarebbe meglio cancellarlo , si dice. Il Natale è la festa della famiglia. E’ un potente riattivatore traumatico per chi in famiglia non vive e si sente recluso in comunità.Le fughe sono prevedibili nel periodo natalizio e non si può passare il Natale senza pensarlo, senza organizzarlo in un luogo neutro dove trascorrerlo : in una baita, in casa di amici ospitali, in un ristorante, in un luogo bello poco evocativo della famiglia.  Al Natale quell’educatrice e’ giunta frustrata, umiliata da chi, invece di fornire un setting di formazione  e supervisione regolare, le ha ripetuto che era lei l’incapace, quella che non ce la faceva. Ora quel Natale è passato da anni e quell’educatrice vorrebbe tornare in comunità . Vorrebbe riprendere quella storia interrotta che nessuno ha mai riparato. Il dolore in supervisione riemerge. Il pianto sale potente per quanto è stato represso. Ci vuole ordine: risignificare l’accaduto. Il ragazzo è morto. Quella morte non è stata ancora pianta abbastanza. Ci vogliono le lacrime e ci vuole una riattribuzione di colpe e di responsabilità. Si certo quella sera non c’era l’educatrice in turno ma il suo collega, ma lei quel ragazzo lo aveva salutato con un arrivederci, ed era un addio. La colpa non è sua. L’educatrice lo sa. La colpa della morte è dell’incoscienza dell’eta’ , ma questo non consola . La colpa è di un sistema che non ha protetto quell’educatrice che l’ha sovraesposta al rischio e che non ha attivato nessuna riparazione : neppure una psicoterapia offerta dopo il dramma. So- stare in comunità con gli adolescenti è il risultato di una volontà condivisa e di un progetto altrettanto condiviso. Non c’era. Ora si può dire e si può anche gridare che quella solitudine è colpevole :non si può lasciare un’equipe da sola. La filiera della  cura ci salverà . Chi aiuta chi ? L’educatore potrà aiutare il,ragazzo se l’educatore e’ nello sguardo di un’equipe e se l’equipe e’ nello sguardo del coordinatore e/ o del supervisore. Se lo sguardo non accompagna l’equipe e  neppure l’educatore, lo sguardo di quest’ultimo non potrà posarsi sul ragazzo. La filiera della cura si ferma. Il dolore rimane. Ora si riparte. Si riparte dall’elaborazione di quel lutto congelato. Si riparte da quel dolore, da quella colpa che non si ha, dall’analisi di un’organizzazione che non ha saputo proteggere ne’ tutelare i suoi operatori e i ragazzi presi in carico. La riparazione è iniziata in questi 45 minuti di supervisione che hanno avviato un processo dovuto e necessario.

 

 

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