Il processo di comunicazione con un bambino o un adolescente che è affetto da malattia grave è influenzato da molti fattori all’interno delle relazioni della triade paziente (bambino o adolescente), genitore o caregiver e professionista sanitario. Questi fattori possono evolvere nel tempo con la progressione della malattia e con la crescita del paziente, e possono avere sia effetto positivo che negativo sulla situazione.

Numerosi sono gli studi che hanno messo in risalto i benefici di una “buona” comunicazione. Uno studio olandese su 56 bambini con cancro dimostra come i bambini che erano stati informati fin dai primi momenti della diagnosi e prognosi della malattia, abbiano presentato meno ansia e depressione, rispetto a bambini che avevano ricevuto meno informazioni e in un momento successivo (Last BF, 1996). Uno studio italiano ha invece dimostrato che l’ansia, la depressione e il ritiro sociale erano molto meno frequenti se vi era stata una comunicazione efficace (Adducci A, 2012). Migliorare la comunicazione può alleviare l’incertezza e di conseguenza migliorare la qualità di vita (Fortier MA, 2013). Informazioni accurate possono supportare la congruenza tra il mondo interno del bambino (ad esempio la consapevolezza della malattia, i cambiamenti del corpo, le reazioni della gente, e se possibile, l’imminenza della morte) ed il mondo esterno (ad esempio le informazioni che ricevono dai genitori e dai sanitari) (Kreicbergs U, 2004). Alcuni studi hanno anche dimostrato che i bambini possono venire a conoscenza della loro malattia e quanto essa sia seria senza che ciò venga loro detto in modo esplicito (Bluebond-Langner M, 1989; Bates AT, 2015). Sia il genitore che il bambino possono cercare di proteggersi l’un l’altro dalla loro stessa consapevolezza della malattia, non riconoscendola. Questa “mutua finzione” può avere conseguenze negative se il bambino si sente solo nel dare un senso a questa spaventosa consapevolezza, senza alcun supporto nel gestire le conseguenze emotive (Binger CM, 1969)

Non tutti i bambini, e ancor più gli adolescenti, vogliono essere informati della loro malattia e della possibilità di morire (Jacobs S, 2015; Last BF, 1996; Wasserman AI, 1987). Uno studio americano su 57 giovani che erano sopravvissuti ad un cancro durante l’infanzia, mette in risalto che alcuni di questi hanno “abbracciato il loro cancro” e ne sono diventati esperti conoscitori, mentre altri hanno “incapsulato la malattia” e l’hanno riconosciuta il meno possibile, sostenendo che la loro limitata comprensione e consapevolezza della situazione li ha aiutati a far fronte a quello che accadeva. (Fritz GK, 1988)

Genitori e caregivers sono spesso l’interfaccia tra i professionisti della salute e il bambino o l’adolescente, e possono aver compiti differenti all’interno del processo comunicativo (Badarau DO, 2015; Clarke SA, 2005; Young B., 2011; Young B., 2003). Oltre al ruolo fondamentale di rappresentare una sicurezza emotiva e un sostegno per i propri figli, essi si possono trovare a mediare tra le parti (Young B, 2003), sostenendo le preferenze del bambino e ascoltando le sue preoccupazioni (Gibson F., 2010). Possono essere i primi a dover rispondere a domande difficili, avendo compreso meglio l’informazione (Young B, 2003), anche filtrando e limitando le parti più sconvolgenti (Coyne J, 2016). Il ruolo dovrebbe essere possibilmente un ruolo facilitatore della comunicazione, tenendo conto sia delle necessità del bambino che delle priorità del medico (Young B., 2011)

I genitori e i caregivers possono non essere d’accordo sulla potenziale importanza della comunicazione (Aldridge J, 2017) e frequentemente esprimono il desiderio di “proteggere il loro figlio”, avendo paura che la scoperta della malattia abbia conseguenze psicologiche negative per il bambino, tra queste l’angoscia, la depressione, l’ansia, l’isolamento sociale e la perdita di speranza (Su YH, 2007; Pinzon-Iregui MC, 2013; Lorenz R, 2016; Badarau DO, 2015; Oberdorfer P, 2006). Altri genitori riportano che non vogliono mettere in dubbio le speranze proprie e del figlio che la malattia possa essere curata, e per alcuni genitori la morte non è un argomento appropriato di cui parlare con i bambini (van der Geest IMM, 2015). La decisione dei genitori di non parlare con i propri figli può anche riflettere la loro stessa angoscia emotiva e il desiderio di difendere sé stessi dalla realtà insopportabile della situazione (Aldridge J, 2017). Si possono sforzare di anticipare le preoccupazioni del loro figlio, ma spesso hanno una mancanza di fiducia nella propria capacità di rispondere a domande difficili, soprattutto quelle sulla morte (van der Geest IMM, 2015; Brown BJ, 2011; Clafin CJ, 1991; Lorenz R, 2016; Badarau DO, 2015.

A loro volta i medici che si trovano all’interno di questa triade comunicativa spesso riportano, quali fattori che incidono negativamente nella comunicazione, la propria mancanza di competenza, la scarsa esperienza e conoscenza; il non aver tempo necessario da dedicare alla discussione e la riluttanza a sfidare pattern di comunicazione evitante da parte della famiglia (Aldridge J, 2017; Goldman A, 1993). Molte poi sono le situazioni stressanti di chi lavora con pazienti seriamente ammalati, che possono influire sulla comunicazione dei sanitari, tra cui: la frequente esposizione alla morte, la mancanza di tempo da trascorrere con il paziente che sta per morire, un carico di lavoro in aumento ed un gran numero di morti; l’affrontare la propria risposta emotiva di fronte ad un paziente che muore; la necessità di comportarsi “come se nulla fosse successo”, la difficoltà di comunicare con i bambini morenti e con i loro genitori; l’identificazione o lo sviluppo di un rapporto di amicizia con i pazienti; l’incapacità di essere all’altezza dei propri obbiettivi (per esempio interiorizzare la responsabilità di provvedere una “buona Morte”) e sentimenti di depressione e colpa in risposta alla perdita (Kearney MK, 2009)

L’importante è che gli adulti coinvolti nella comunicazione siano consapevoli del loro ruolo e delle loro responsabilità, perché con la collaborazione di tutti gli ultimi periodi di vita del bambino malato siano vissuti nel modo più sereno possibile, per lui e per la sua famiglia. 

Paola Miglioranzi, pediatra di famiglia

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