Barbara si avvia di corsa a casa. Ha quindici minuti prima che cominci una riunione online, poi ci sono i letti da sistemare, la lavatrice da avviare, la lavastoviglie da svuotare e la spesa da fare. Deve andare a prendere il figlio più piccolo a scuola, fargli fare i compiti, accompagnarlo a calcio, tornarlo a prendere ed essere a casa in tempo, perché alle 16,30 in punto Marco torna dal centro.

Si guarda allo specchio prima di collegarsi: i suoi capelli avrebbero urgente bisogno della parrucchiera. Si vede la ricrescita e il taglio che la sua vicina di casa, improvvisatasi acconciatrice in emergenza, le aveva fatto otto mesi prima era diventato una massa di capelli informe. Pazienza, un elastico sarebbe andato benissimo.

Avrebbe avuto anche bisogno di qualche vestito nuovo. Quelle tute che ormai aveva messo e rimesso centinaia di volte durante il lockdown cominciavano ad essere scolorite. Che importa, il vantaggio delle riunioni online è che puoi puntare la telecamera esattamente all’altezza degli occhi, così dal collo in giù non si vede niente. Quando avrebbe tempo di andare dalla parrucchiera, dall’estetista, di fare shopping? Nei fine settimana il centro è chiuso e Marco ha bisogno di assistenza a tempo pieno. I rituali che li accompagnano ogni sera ed ogni mattina si allungano e si moltiplicano: fare il bagno, la riabilitazione, i massaggi con le creme per evitare gli arrossamenti, cambiarlo, dargli da mangiare e tenerlo in ordine sono compiti che toccano a lei.

Si massaggia la schiena Barbara. È già un mese che sente quel dolore, sempre nello stesso punto. Ci vorrebbe un medico. E per dirle cosa? Che deve stare a riposo? O, peggio, che si deve curare? Che occorrono anche a lei sedute di fisioterapia? Che dovrebbe seguire una dieta per calare di peso? Con gli antidolorifici si fa prima. E poi, a volte, è meglio non saperlo se si è sani o malati. Prima o poi il dolore passerà. Per lo meno quello fisico. Per quello nell’anima, invece, non c’è rimedio. Non è per Marco. Se non ci fosse sarebbe addirittura peggio. Solo lei può sapere che cosa significhi essere sua madre. Sono gli sguardi della gente a ferirla. Sembra che la trapassino, che la compatiscano: prima perché ha un figlio disabile e poi perché non si prende cura di sé, come se fosse una logica conseguenza ad un dolore irreparabile. Come se i genitori delle persone con disabilità fossero naturalmente destinati ad una vita dimessa. Ma che ne sanno loro? Che ne sanno dei minuti contati, del tempo che non basta mai e, contemporaneamente, non passa mai? Che ne sanno delle corse continue, della certezza che certi compiti di cura non si esauriranno, che si avrà sempre a che fare con pannolini, creme, con il disagio di cercare un bagno sufficientemente pulito, un parcheggio comodo, un ufficio senza scale?

Barbara di mette di fronte al computer, che le restituisce un’immagine stanca, proprio come lei si sente. Adesso il dolore è salito all’altezza delle spalle e del collo. Probabilmente le durerà fino a sera e l’antidolorifico risolverà un bel niente, ormai ha imparato a conoscersi. Forse ci vorrebbe veramente un dottore. Ma la verità è che ormai prendersi cura di sé è diventato un lusso che non può permettersi.

Si trova a sognare qualcosa di semplice e di complesso allo stesso tempo. Una giornata tutta per sé: svegliarsi quando è il suo corpo a decidere e poi rimanere nel letto ancora un po’ a leggere, oppure a godersi il tepore delle coperte; sorseggiare un caffè sul balcone, spiluccare un cornetto comprato in pasticceria e non quello del solito discount che sa di plastica; spazzolare con cura i capelli che da ragazza erano di un bel castano lucente; indossare un abito semplice, fresco di bucato, stirato e inamidato come piace a lei; fare una passeggiata in centro, comprare un paio di scarpe col tacco, di quelle che non indossa più da almeno vent’anni; provare dei nuovi trucchi e indugiare su un rossetto color ciliegia forse un po’ audace, ma che le dona quando si mette la collana di corallo. Anche solo pensare a queste frivolezze le fa sentire che sta perdendo tempo, quando invece avrebbe potuto fare altre mille cose.

Accende il computer e chiede di essere ammessa alla riunione. Spera che nessuno le chieda di intervenire perché il dolore è diventato allucinante e farebbe persino fatica a parlare. Ingoia il secondo antidolorifico, augurandosi che sia miracoloso. Ma non lo sarà. Come quella giornata per se stessa, che si vergogna persino a sognare. Non sarebbe miracolosa, dovrebbe comunque tornare alla sua vita di sempre. Ma forse servirebbe a farle sentire che lei c’è, che esiste ancora, in mezzo alle mille responsabilità ed incombenze. È proprio questo che nessuno sembra voler capire.

Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia

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