« Una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l’impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba »

(Henry james)

angelo

Una lapide bianca accanto a un cipresso. Sul marmo c’è scritto “Cor cordium”, cuore dei cuori. Due parole a racchiudere il soffio di un amore che non si è spento con la fine della vita.L’Angelo del dolore (Angel of Grief), l’ultima opera creata dallo scultore americano William Wetmore Story in memoria della sua amata moglie Emelyn, è poco lontano, accasciato sul marmo con le sue grandi ali: al cimitero acattolico di Roma riposano tanti stranieri che hanno amato la Città Eterna.

Il Cimitero, già Cimitero degli Inglesi o Cimitero dei protestanti,  nel quartiere di Testaccio, circondato dalle Mura Aureliane, fu istituito per dare sepoltura agli stranieri acattolici residenti a Roma che, secondo le norme della Chiesa cattolica, non potevano essere seppelliti nei cimiteri cattolici. La sua origine risalirebbe al 1738, secondo la data della tomba più antica, appartenente a uno studente di Oxford. Il cimitero di Testaccio divenne quindi il luogo di sepoltura per molti stranieri protestanti, ortodossi o ebrei che risedevano a Roma; ma anche per donne e uomini che erano stati espulsi dalla Chiesa cattolica, come i suicidi. Le autorità decisero che il rito di inumazione avvenisse di notte, per evitare di suscitare proteste da parte dei più ferventi cattolici. Numerose le tombe ispirate ai motivi dell’antichità classica, e tra reperti di epoca romana impiantati sui sepolcri ottocenteschi, è possibile ammirare l’Angelo della resurrezione di Simmons e la Psiche che si sveste delle sue spoglie mortali di Greenough. La bellezza del luogo, proprio a ridosso della Piramide Cestia, la presenza di ruderi, pini e cipressi ne fece un luogo caro agli artisti e poeti romantici. Un luogo gestito da rappresentanti di 14 ambasciate, con quattromila lapidi e storie da raccontare, dove lungo un itinerario all’ombra di pini, cipressi, mirti, allori e piante scolpite, riposano le anime di tutti quei non-cattolici illustri morti a Roma tra il XVIII e il XX secolo.

Tra i tanti che qui vi riposano anche Percy Shelley e John Keats.

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La tomba del grande poeta inglese  è visibile dall’esterno anche quando il cimitero è chiuso, grazie a una finestrella sul muro di cinta. Keats morì a Roma nel 1821 a soli venticinque anni, assistito dall’amico Joseph Severn che gli sarà poi sepolto accanto. La  lapide di Keats è anonima per volontà dell’artista. L’iscrizione dice:”Qui giace un uomo il cui nome è stato scritto nell’acqua”.

Trova sepoltura nel Cimitero Acattolico anche il politico Antonio Gramsci: proprio la sua tomba ha ispirato alcuni tra i versi più celebri di Pier Paolo Pasolini.

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Le ceneri di Gramsci

 

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite … questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo;
la fine del decennio in cui appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore;

Tu Gramsci, meno sventato e più sano
dei nostri padri – non padre. Ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, i cui non siamo.
Scelte, dedizioni…. altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che tuttavia la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grige pietre, corte

e impotenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta:e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smorti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga…. quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido, e risuonano
familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: <<And I ye Fountains…>> – le pie

invocazioni….

III

Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso, l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci…Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. ( O è qualcosa
di diverso, forse, d più estasiato

e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa

la tua tensione, sento quale torto
qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte

nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme

non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio

e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimesso

rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso…povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine

dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito

è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade

di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo

l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
con te – il mondo, oggetto non appare

di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto

perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseria

sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della coscienza.

IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
Con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione,
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica; ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…

come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

V

Non dico l’individuale, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale….
altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare..
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nelle vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza…e ironico ardore

liberale…. E rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infinite minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia…ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza !, vive l’io; io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio
accorante,violento,….ah come
capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley ….Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio ( greco
nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro….
Nella maremma, scuri, di stupende fogne

d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa…Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii

del mare…. E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome

del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette…

Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?

(Pier Paolo Pasolini)

 

 

 

 

 

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