Fino a poco fa ero immortale. Pensavo di avere un tempo illimitato davanti a me, pensavo di poter fare tutto quello che desideravo, di avere tempo per farlo, ma soprattutto non mi ponevo alcun limite. Un giorno mi hanno detto che quel limite c’era. Non ho pianto, non ho manifestato il mio dolore, ma il mio grido assordante e silenzioso rivolto all’infinito, la mia disperazione rivolta al cielo, alla terra, all’acqua, a tutti gli elementi in natura non aveva confini. A quel tempo comparve la tempesta Vaia in tutto il suo dirompente furore: la mia mente era stata in qualche modo fautrice di un tale disastro? 

Scoprirsi malati di cancro è una delle peggiori esperienze che un individuo possa fare: ci si sente annichiliti, impotenti, alla mercè del settore ospedaliero, all’inizio – per i più fortunati- di un lungo percorso, non scevro di ostacoli. Ci si approccia, pieni di speranza, pieni di volontà di vivere, ma la fine di tale cammino non è mai certa. “Malattia incurabile” come è stato definito il cancro, essa fa sì che lo stesso modo di vivere “cambia”: non certo per le cure da sopportare (alcune di esse molto dolorose) lunghe e che comunque lasciano delle scie dentro di te, ma anche per il substrato vicino a te. La malattia stessa è da sempre associata alla morte e ciò fa sì che non appena la cosa viene resa per così dire “pubblica”, il fatto ti lascia un po’ di tabula rasa intorno: vieni inteso come un portatore di morte, le persone temono si possano infettarsi o che tu possa trasferire loro qualche “cellula” negativa. Tutto ciò comporta che anche quando il male viene sconfitto dai potenti farmaci oggigiorno esistenti, comunque sia, una sottile traccia di quello che hai avuto te la porti appresso, come una cicatrice, come un tatuaggio e tutto ciò non fa che prolungare uno stato di malessere con cui pensavi di aver chiuso la partita.

Ecco, quindi, che per far fronte a questo retaggio di esser sempre e comunque considerato “malato”, è stato approvato in Commissione Affari Sociali della Camera dei deputati il testo unificato del disegno di legge sull’oblio oncologico, condiviso sia dalla maggioranza, sia dall’opposizione, che mira a fornire gli stessi diritti di tutti anche a chi è guarito dal tumore. Il diritto all’oblio non ha lo scopo di aiutare la persona a dimenticare il tumore: certe esperienze non si cancellano, si fanno, si superano, ma rimangono comunque nascoste, rannicchiate in qualche dedalo oscuro della mente.

Un diritto all’oblio, quindi, il cui primo obiettivo è quello di rimuovere l’impronta negativa (non la memoria) della malattia, al fine di evitare che al dolore fisico si aggiunga anche quello burocratico, discriminando chi è sano da chi è malato, riducendo il diritto a stipulare un mutuo, stipulare un’assicurazione, adottare un bimbo ed altri atti del vivere civile. Il “marchio” del cancro si identifica in un qualcosa di sottile, strisciante, in grado di pregiudicare la posizione dell’individuo nella società, danneggiare l’individualità, infrangere progetti futuri di famiglia, ovvero una limitazione al vivere comune.

Il disegno di legge si propone di far decadere l’obbligo di dichiarare di aver avuto un cancro, ovvero a non subire discriminazioni in ambito assicurativo/bancario (quando siano trascorsi dieci anni dall’assenza di recidive) e di adozione di minori (con modifica dell’art.22 L.184/1983, ove al 4°co. viene richiesto lo stato di salute). In sostanza non si verrebbe più considerati pazienti oncologici dopo 10 anni se la diagnosi è fatta in età adulta o dopo 5 anni, dalla fine delle terapie, se il tumore è insorto in età pediatrica. Il tutto permetterebbe di non citare la malattia in tutti quei contesti che potrebbero nuocere ai diritti della persona.

Il disegno di legge prevede pure l’ipotesi di istituire un nuovo organo di vigilanza, destinato a vigilare sulla effettiva attuazione della legge.

Importante è sottolineare quanto la questione sia delicata nei confronti dei giovani, non solo minori. Questo perché molti di loro tendono a condividere la propria condizione attraverso le piattaforme mediatiche, al fine di trovare conforto, amicizia e condividere esperienze con chi è già passato attraverso questa dolorosa vicenda. Tutto ciò rimane nel web e se al momento qualsiasi informazione ricevuta può destare sollievo, stupore, chiarimento, che attenua il desiderio di sapere cosa sta succedendo al proprio corpo, non bisogna dimenticare che tali informazioni possono rimanere per lungo tempo, dando origine anche a commenti negativi. Ciò di cui nessuno ha bisogno. Ecco una ragione in più per favorire il diritto all’oblio.

Ma non basta: è necessario operare anche su un quadro educativo rivolto a tutti. Sebbene non sembri, di tumori si parla sempre troppo poco: c’è una sorta di ritrosia, vergogna, riluttanza ad esprimersi sulla propria salute, forse retaggio di un tempo passato ove il malato era posto ai margini della società. Bisogna intervenire con forza sullo sguardo di commiserazione dei “più fortunati”, rispetto a te che hai percorso “quella” strada, da quella compassione (finta o vera che sia), da quella espressione di vittimizzazione nei tuoi riguardi.

L’unica nota positiva della malattia? Imparare a vivere ad ogni costo, a non perdere tempo, ad assaporare ogni momento che ti si pone davanti, a non perdersi dietro cose inutili, che non faranno rumore, a essere sé stessi sempre comunque e ovunque, a guardare avanti col sorriso.

Da allora ho fatto mia la seguente massima e cerco di rispettarla: Vive in dies et horas; nam proprium est nihil.(Vivi giorno per giorno, ora per ora. Nulla ti appartiene).

Daniela Leban, esperta di bioetica giuridica

Categories: