Da un testo di Mariano Dammaco, uno spettacolo teatrale, “La buona educazione”, che narra la storia di una donna single che riceve la visita dei fantasmi dei suoi genitori i quali le preannunciano che dovrà occuparsi del suo unico nipote maschio, ultimo della sua stirpe, fino alla fine dei suoi giorni. Dopo poco, una telefonata dell’ospedale le annuncia la morte di sua sorella e l’affidamento dell’unico figlio di lei. Si tratta di un testo duro ma quanto mai realistico, in cui il tema della morte diventa un leit motiv ammantato di normalità. A volte si è soli. Soli perché i genitori scompaiono prematuramente. Soli perché si sceglie di non sposarsi. Soli perché ci si sente diversi da una società che rompe ogni alleanza con l’autorità: gli insegnanti non vengono riconosciuti, i medici non vengono ascoltati. Si fanno processi sommari sui social, dai quali si esce a pezzi e, se possibile, più soli di come ci si è entrati. La morte è il continuo termine di paragone di una donna sola che cerca, come meglio può, di accudire un figlio che non aveva scelto di avere. La buona educazione è il filo conduttore di ciò che resta di una vita, quella della protagonista, che è continuamente minata dai giudizi del passato, ovvero quello di non essersi sposata e di non aver procreato, e dal pregiudizio del futuro, quello di non fare quello che la madre naturale avrebbe fatto, di non poter essere assimilata in alcun modo a lei. Eppure, in tutto questo, la donna continua ad esserci, a scegliere di esserci. A vivere, anche quando tutto attorno a lei richiamerebbe alla morte come ad una condizione estremamente desiderabile. Continua ad esserci quando suo nipote si mette in pericolo, quando passa giorni e notti intere davanti ai videogiochi, persino quando sceglie di allontanarsi da lei. Lei sceglie di esserci. All’inizio, forse, per rispetto alle convenienze, per buona educazione appunto, ma poi, per desiderio di rimanere attaccata alla vita. E quel desiderio di condividere una buona educazione diventa un buon motivo per continuare a vivere. Non solo nel qui ed ora, ma anche nell’attesa. Nell’attesa che le cose divengano, che ognuno cresca e diventi disponibile ad accogliere l’altro. Nell’attesa che quei semi piantati a terra diano i loro frutti. Ecco, quell’attesa che prima era vissuta e percepita come inerzia, ora diventa vita. Diventa tempo per investire su se stessi, per capire ciò che si è e si vuole diventare. La buona educazione è una storia che parla di noi, di ognuno di noi. Della paura della morte della quale non riusciamo a liberarci e ci imprigiona nella vana prerogativa di fare tutto bene, seguendo le aspettative di una società nella quale, ad ogni buon conto, spesso non ci riconosciamo nemmeno più. Parla della paura della vita, quella che proviamo ogni volta che ci dobbiamo misurare con un compito che ci appare più grande di noi e cerchiamo di allontanarlo, trincerandosi dietro la netta distinzione tra ciò che ci spetta e ciò che non ci spetta. La buona educazione è un racconto che ci insegna che siamo tutti responsabili gli uni degli altri, fino alla fine dei nostri giorni. Che siamo tutti custodi della dignità degli esseri umani che incontriamo, protettori della loro libertà ma anche guardiani della loro sicurezza e della loro difesa. Nessuno è esente da questo compito, nemmeno chi sceglie di vivere la propria vita in solitudine. Perché c’è un filo che lega l’umanità e la trasforma in qualcosa di più grande della somma e della prossimità dei singoli esseri umani. Qualcosa che va oltre l’educazione, il rispetto, la tolleranza. E che sfocia in qualcosa di impalpabile e concreto allo stesso tempo: la vita.

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