Peppino Impastato, giornalista ucciso dalla mafia nel 1978, affermava: “Per sconfiggere la paura e la rassegnazione bisogna educare alla bellezza.”
Abbiamo paura quando qualcosa minaccia il nostro benessere, la nostra incolumità fisica e/o psichica, o minaccia il benessere e l’incolumità delle persone cui vogliamo bene, l’ambiente nel quale viviamo, contaminandolo, riducendolo, deturpandolo. Sentiamo la paura quando qualcosa mette in pericolo i valori nei quali crediamo e che orientano la nostra vita. Siamo impauriti quando temiamo che qualcosa o qualcuno possa causarci dolore, privazione, mancanza. E quando la minaccia viene vissuta come una realtà non influenzabile, non modificabile, allora muore la speranza e subentra la rassegnazione. Siamo in una situazione di inattività fisica e psichica. Ci sentiamo in trappola.
E’ difficile anche solo immaginare cosa possano aver vissuto e ancor vivere i migranti, ed ancor più i loro bambini. Hanno visto la violenza intorno a loro, che spesso colpiva i loro genitori, gli amici, i nonni, le persone care che vivevano loro accanto, quando non colpiva direttamente loro stessi. Hanno visto distruggere le loro case e le loro città, i luoghi dove giocavano e in cui si sentivano sicuri. Hanno camminato e viaggiato con mezzi di fortuna per strade lunghe quasi senza fine (tali possono essere per un bambino), con poche cose e nessuna certezza. E dopo un tempo infinito, sono arrivati in un paese lontano, diverso, forse accogliente, che può dare loro speranza di poter ricostruire una vita migliore di quella lasciata, senza violenza e con dignità. Un posto dove fermarsi, un porto sicuro. Ma se questa speranza viene messa in dubbio e sembra impossibile da realizzare: per quale scopo continuare a lottare per vivere? Prevale la stanchezza e il dolore ricordando quanto già vissuto. E così il ritiro dalla vita, un sonno che assomiglia alla morte, o una morte che assomiglia ad un sonno. Anche se la rassegnazione non è una vera morte fisica è una morte delle relazioni, delle immagini, dei suoni, ma anche una liberazione dal dolore che è difficile da affrontare, la disillusione, la perdita di controllo di quello che sarà e che era stato programmato. E’ una morte che allontana dalla vita, pur lasciandoti vivo, nulla riesce più ad interessare o stimolare. L’unica possibilità che rimane è un sogno, che sappia ricordare e far rivivere i momenti belli di un vissuto lontano, che sappia mantenere le pulsazioni del cuore e il respiro dei polmoni, che nascosto in fondo in fondo possa germogliare come un granello di senape, nel momento in cui rinasce in qualche modo la possibilità di essere davvero in un posto sicuro per sé e per i propri cari. E come nell’Amleto di Shakespeare, la morte e il sonno vengono accomunate, e forse c’è un sogno, la speranza che rimane sopita ma presente e pronta a rinascere.
Come si può educare alla bellezza se tutto quello che ha finora circondato questi bambini è tragedia e morte? Sarà una cosa che tutti dovremmo imparare, perché la rassegnazione non è solo frutto di guerre e immigrazioni, ma anche di tutte le paure che ognuno di noi vive nella sua quotidianità e per le quali sente di non riuscire più a combattere, come una malattia grave o la solitudine e la vecchiaia. Come dice il prof. Jankovic (Jankovic M, 2018) “ne vale sempre la pena”. Di combattere, di cercare il vero valore della vita. Un sorriso, una mano tesa, un abbraccio. Una parola. Uno sguardo. Ti vedo e per me sei importante. Ed io sono qui con te. A volte basta poco.
C’è ancora posto in una situazione come quella vissuta da questi bambini per la Terror Management Theory? Tale teoria ci mostra, a partire da numerosi studi empirici, che il senso di appartenenza e di condivisione di valori culturali e spirituali è un importante fattore di protezione rispetto alla Death Anxiety, ossia all’ansia e alla paura legate alla morte. Le ricerche mettono in luce che la solidità di una cultura di riferimento e il potersi riconoscere quali membri di valore all’interno di essa sono elementi fondamentali nella gestione dell’angoscia ingenerata dal confronto con la propria o altrui mortalità.
Sicuramente questi bambini sentono molto forte la loro appartenenza culturale, anche perché nella maggior parte dei casi i bambini colpiti fanno parte di minoranze etniche che hanno già dovuto combattere il pregiudizio in patria. Forse questo diventa fattore di resilienza che aiuta nell’unità culturale e spirituale a sopportare tutto quello che devono sopportare per attraversare tanti paesi e situazioni diverse. D’altra parte sembrano non aver paura della morte, intesa come noi la intendiamo. Il loro staccarsi dal mondo e dalla vita sembra un momento di passaggio ad una situazione meno dolorosa, il prendersi una pausa dalla vita, sopraffatti dagli eventi (non a caso un documentario su questi bambini registrato nel 2019 e trasmesso da Netflix si intitola “Sopraffatti dalla vita”). Forse di morte ne hanno già vista tanta, nel loro paese e lungo la strada, che questa è diventata più compagna che nemica. Ne hanno ritrovato la presenza nella quotidianità, soprattutto in situazioni di violenza collettiva, e questo ha tolto loro la paura di lasciarsi andare ad un sonno così lungo, da cui non sanno se ritorneranno e quando, e di cui dimenticano tutto. O forse tra qualche decennio ritornerà alla loro mente qualcosa di questa vita “in pausa” e, come i sopravvissuti dai campi di concentramento, ci racconteranno cose che noi non riusciamo nemmeno ad immaginare. E non saranno solo sogni.
Paola Miglioranzi, pediatra di famiglia
Jankovic M. Ne vale sempre la pena. Il Dottor Sorriso, i suoi pazienti e il vero valore della vita. Baldini Castoldi, 2018.