“Il mese di novembre è quello tradizionalmente dedicato al culto dei defunti, con la visita ai cimiteri e l’ornamento delle tombe, un’occasione per ricordare i propri cari ma anche per riflettere sul mistero della morte e del suo inscindibile legame con la vita. La visita ai defunti diventa così una sorta di risarcimento di una tendenza, tipica della società contemporanea, a nascondere la morte, a considerarla un evento che va vissuto esclusivamente in privato, qualcosa di cui non è opportuno parlare perché in totale contrasto con la logica efficientistica e utilitaristica che regola la nostra società. In questo contesto culturale si pone una questione ulteriore,quella di come parlare della morte ai bambini, ai propri figli, domanda che spesso mette in forte difficoltà genitori ed educatori, facendoli sentire inadeguati a tale compito. Un’interessante e originale prospettiva è quella che propone in un volume di recente pubblicazione uno dei principali esperti italiani di elaborazione del lutto. Si tratta del direttore del primo master italiano di specializzazione in tanatologia e fondatore dell’Istituto di tanatologia e medicina psicologica, il prof. Francesco Campione, docente di psicologia clinica presso l’università di Bologna,autore di una quindicina di pubblicazioni sul tema. La domanda che vola. Educare i bambini alla morte e al lutto è il titolo della sua ultima fatica editoriale (EDB,Bologna 2012, pp. 140, Ä 9,90) dedicato a come trattare il tema della morte con i bambini quando essa si presenta nella loro vita. L’idea del docente, piuttosto  rivoluzionaria,è che alla morte,come a qualsiasi evento umano, sia possibile educare i più piccoli che troppo spesso vengono trattati in maniera inadeguata, non sufficientemente ascoltati e, soprattutto,spesso liquidati nelle loro domande con risposte evasive e non all’ altezza della situazione.

Le «quote di verità»

Sostanzialmente – afferma il docente– oggi si tende a presentare la morte in maniera tale da rimuoverla il più e prima possibile dalla vita del bambino, cercando di minimizzarla. È quella che l’autore definisce«la strategia della distrazione». «Nella nostra epoca l’educazione alla morte tende a non far parte dell’educazione alla vita, e l’educazione alla vita di oggi si basa proprio sul tentativo di far scomparire i sentimenti che accompagnano la morte – si legge nell’introduzione–. I bambini sperimentano abbastanza presto la paura di morire, ma non li si educa a considerare questi sentimenti come“normali” e inevitabili, imparando a gestirli e a superarli crescendo: si fa, anzi, sempre di tutto perché i bambini li cancellino, come se tali sentimenti fossero inadatti al fatto stesso di essere bambini».Ne deriva la modalità più diffusa di affrontare la questione da parte dei genitori o anche degli educatori,la distrazione, appunto, per cui si invitano i bambini a sostituire le paure, le angosce o anche il desiderio di morire (che può scattare quando si perde, per esempio,un genitore) a «sostituirli» con sentimenti più positivi e gratificanti,con frasi del tipo «non pensarci e divertiti», oppure «queste non sono cose per bambini» (nel caso si tratti di perdita di persone conosciute ma non troppo legate alla vita del bambino).La strategia della distrazione diviene,secondo questa logica, strategia della sostituzione nel caso di perdita di figure fondamentali e come quelle genitoriali, per cui si tende a non far pensare il bambino alla mancanza di quella figura dirottando la sua   persone che invece ci sono e che si prenderanno cura di lui (l’altro genitore, fratellini, parenti ecc.).Se poi il bambino manifesta una domanda tipo «papà è morto, voglio morire anch’io», si risponde «e come farai dopo a fare tutto quello che vuoi fare?». Sostanzialmente,si invita a distrarsi dall’idea della morte con qualcosa di gratificante. I limiti di una tale impostazione,che ben rispecchia la logica della nostra epoca per cui tutto ciò che si fa deve essere gratificante per l’individuo,ha grossi limiti nel fatto che ci saranno bambini a cui tale gratificazione non basterà, o altri a cui basterà per un po’ ma poi risulterà pure inutile, con la conseguenza di frustrazioni e l’insorgere di sentimenti di rabbia e di aggressività per il «soffocamento» che si è fatto dei loro inevitabili sentimenti. L’educazione alla morte tende così a diventare apprendimento dei modi per non pensarci. Più complessa e articolata è invece la premessa culturale su cui ci si basa quando si sceglie di educare i bambini a non allontanare il pensiero della morte e i sentimenti chela accompagnano, ma imparare a potervi convivere. In questo caso,si educa a pensare che alla morte vi è un rimedio,elaborando un’idea della morte tale da «contenerne» la tragicità, oppure trasmettendo l’idea religiosa che la morte colpisce solo il corpo ma non l’anima che vi sopravvive, oppure considerandola morte in senso positivo in quanto ci aiuta a vivere meglio la vita e ogni suo attimo. In questa seconda modalità rientrano tutte le spiegazioni secondo le varie fedi religiose cui i genitori appartengono, anche se occorre evidenziare come presentare la morte come qualcosa che pone termine a questa vita per un’altra, il cielo, come accade in abito cristiano,pone nuove domande (dov’è il cielo? cosa si fa in cielo?) che presuppongono, da parte dell’adulto,la capacità di dare risposte adeguate a seconda dell’età e dello sviluppo cognitivo del bambino. Entra in campo quella che Campione definisce «la narrazione dell’eternità», la capacità di narrare un concetto così estraneo alla natura umana cui gli adulti, spesso, anche i più credenti, sono impreparati osi trovano loro stessi a crederci con poca convinzione. Fondamentale, sia nella prima modalità che nella seconda, appare il contributo della psicologia evolutiva,che ci aiuta a capire lo sviluppo psichico del bambino, per cui dai 0 ai 3 anni il bambino è convinto che la morte sia reversibile e non universale, dai 4 ai 6 anni comprende che la morte è irreversibile e universale ma la sua causa può essere anche non naturale o biologica(per es. una magia), tra i 6 e i 9anni comprende che la morte è   irreversibile delle funzioni vitali, che avviene per ragioni biologiche e che riguarda tutti,compreso se stesso.L’educazione alla morte come elaborazione positiva del pensiero di essa nel processo di maturazione del bambino porta ad un’altra impostazione,quella di dare ascolto,da una parte, al bisogno dei bambini,anch’esso evolutivo, di esprimerei loro sentimenti, per cui è importante dir loro la verità sulla morte e, dall’ altra, il bisogno di essere protetti da traumi che farebbero perdere loro il controllo alimentando angosce inutili. Un tale equilibrio si costruisce nel tempo sia comunicando una verità parziale che gradualmente diviene totale,sia tacendo la verità in attesa che il bambino stesso ci mandi segnali di cambiamento e di crescita da cui capiamo che è pronto ad affrontarla;in entrambi i casi si educa il bambino attraverso «quote di verità» che gli adulti devono saper gestire. Tale modalità viene portata all’estremo quando il cosiddetto«esame di realtà», certamente utile per aiutare il bambino a rendersi consapevole dei limiti ontologici della natura umana, diviene educazione al «diritto alla verità» dove la razionalità predomina e pretende di adeguare ad essa i sentimenti.

Educare al mistero

È qui che s’inserisce una terza via, una terza possibilità di approccio,che salvi gli elementi positivi di entrambe ma apra, al tempo stesso, una nuova prospettiva che coinvolge maggiormente il contributo del bambino stesso, così che egli la senta più sua e non di altri. È a proposta che l’autore intende trasmettere,e cioè educare il bambino a concepire la morte come in realtà è, un grande mistero, attraverso una ricerca paziente, e a non rinunciare a desiderare il bene nonostante la necessità della morte stessa.«La chiave di volta di questa educazione è suscitare nel bambino un desiderio infinito di svelare il mistero della morte che continuamente risorge, nonostante il fatto che non si riesca a svelarlo –scrive Campione –. Il bambino potrà così imparare a “prendere” il  trauma della morte sia dalla parte dei sentimenti (con il cuore), sia dalla parte del sapere (con il cervello)»Si tratterà di insegnare al bambino a «ospitare il trauma», a prenderne coscienza in sé. Per questo occorre un tempo lungo e un linguaggio creativo adatto all’età e alle circostanze, cercando di trasmettere un messaggio basilare: «che sulla morte rimane sempre un margine di incertezza su “come andranno le cose” e che, comunque vadano, c’è sempre la possibilità che dal trauma della morte si possa trarre qualcosa di buono, dato che essa apre a “mondi misteriosi” dai quali potrebbe scaturire anche il bene, l’importante è non farsi scoraggiare dal continuare a desiderare il Bene».”

di Sabrina Magnani (articolo tratto da “Settimana”)

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