La Shaken Baby Syndrome, o sindrome del bambino scosso, è una grave forma di maltrattamento fisico, che si verifica quando il neonato viene scosso violentemente dal caregiver, come reazione al suo pianto inconsolabile.
Il pianto è il linguaggio usato dal neonato per richiamare l’attenzione dei genitori sui propri bisogni. Tuttavia, può attivare nel caregiver un senso di disorientamento e frustrazione rispetto alla capacità di risoluzione del problema, che alimentano via via un senso di ansia, vergogna, fino a vera e propria rabbia, per l’incapacità di mettere fine ad un evento, di fatto, non più sopportabile.
La letteratura scientifica sostiene che un caso di scuotimento su 4 porti alla morte o coma del neonato e che in 2 casi su 3 si provochino danni permanenti.
In Italia la sindrome è ancora poco conosciuta e difficile da diagnosticare. Terre des Hommes, fondazione nata negli anni 60 per proteggere i bambini di tutto il mondo dalla violenza, dall’abuso e dallo sfruttamento, già nel 2017 ha promosso una campagna di sensibilizzazione, #NONSCUOTERLO! per migliorare la consapevolezza e l’informazione sul fenomeno. Solo nel mese di settembre di quest’anno la Fondazione, in collaborazione con la Rete Ospedaliera per la Prevenzione del Maltrattamento all’Infanzia, ha pubblicato i primi dati italiani, frutto di una rilevazione relativa all’arco di tempo dal 2018 al 2022. In tale periodo, negli ospedali considerati, sono stati diagnosticati 47 casi di SBS: 5 di questi bambini sono morti in seguito ai gravi danni riportati da questo abuso, mentre in altri 25 casi a distanza di tempo si sono verificate gravi compromissioni del percorso evolutivo. In 34 casi su 47 i neonati hanno meno di 6 mesi e per tutte le fasce di età identificate (da 0 a 2 anni) sono più frequenti vittime di sesso maschile. Il 35% dei bambini risulta essere prematuro e con altre patologie, due fattori che aumentano il rischio di subire scuotimento.
L’accertamento fondamentale per rilevare i sintomi da scuotimento è la Risonanza Magnetica, o la TAC, ma nel 40% dei casi tali esami sono stati fatti solo a 24 ore dall’ingresso in Pronto Soccorso, un ritardo che rende più difficile la diagnosi e quindi la corretta presa in carico della vittima.
Inoltre, frequentemente, lo scuotimento avviene all’interno di un quadro di maltrattamento più ampio. Nella casistica presa in considerazione ben 29 casi su 47 bambini presentano questa drammatica compresenza di diverse forme di maltrattamento. Inoltre, 1/3 dei casi rilevati era già stato in pronto soccorso o per altre patologie (21%) o per sintomi sospetti di scuotimento (15%). E si è accertato che 1/4 dei bambini e bambine arrivati in Pronto Soccorso era già vittima di scuotimento.
L’indagine, inoltre, permette di individuare alcune caratteristiche delle famiglie di provenienza delle vittime, nonostante la Shaken Baby Syndrome non conosca barriere di tipo sociale, economico o culturale: i dati rilevano che la maggioranza dei nuclei familiari coinvolti (33 su 47) presenta problematicità legate a marginalità sociale, violenza, dipendenza, delinquenza, patologia psichica (soprattutto depressione materna) o organica e spesso sono nuclei già noti alla Autorità Giudiziaria e presi in carico dalla rete dei servizi sociali.
Parte fondamentale del percorso diagnostico della Shaken Baby Syndrome è la collaborazione di Servizi Sociali e Autorità Giudiziaria per individuare e successivamente gestire fragilità famigliari: tali collaborazioni sono spesso presenti nei centri ospedalieri specializzati su abuso e maltrattamento ma dovrebbero essere presenti anche nei Pronto Soccorso di tutti gli ospedali.
Cosa fare per ridurre questo fenomeno così difficile da intercettare? Prima cosa pensarci, anche se è molto difficile pensare che qualcuno scuota violentemente un bambino piccolo. Dare più attenzione alla depressione post partum e ai segnali di una mamma o di una famiglia in sofferenza. Imparare a riconoscere il pianto per quello che è, un linguaggio non certamente colpevolizzante. Coccolare i propri bambini, far sentir loro il nostro amore con pazienza e la certezza che questi periodi “impegnativi” passano, e poi ce ne dimenticheremo ai loro primi sorrisi per noi.
Paola Miglioranzi, pediatra di famiglia
E se un bambino potesse parlare? Forse ci direbbe che….
Piango fin che mi pare e piango più che posso.
Piango perché non so parlare.
Piango per solidarietà con i miei amici.
Piango come piangono tutti i bambini del mondo.
Piango così qualcuno prima o poi verrà.
Piango perché non so cosa fare.
Piango perché sono stufo di guardare il soffitto bianco.
Piango perché ho fatto tanta cacca.
Piango perché ho caldo, perché ho freddo,
perché sto bene, ma non voglio darvi la soddisfazione.
Piango non so perché, ditemelo voi se lo sapete,
oppure chiedetelo al pediatra che lui ha studiato.
Piango perché per ora è la cosa che so fare meglio.
Piango perché così creo un gran bel putiferio.
Piango perché anche voi alla mia età piangevate.
Non ricordo più perché ho iniziato a piangere,
ma prima un motivo sono sicuro che c’era.
Ovviamente piango perché ho fame e
non arrivo ancora alla maniglia del frigo.
Dopo il pasto piango perché ho mangiato troppo
e ho l’aria nella pancia.
Piangere non fa male, non si muore di pianto,
anzi se non piangessi morirei.
Quando piango sono sicuro che vi ricordate di me
e che state male per me.
In realtà io non piango mai per niente, quando piango è perché voglio
qualcosa e alla mia età i desideri e i bisogni corrispondono sempre.
Perciò non preoccupatevi troppo e sforzatevi invece di capire
di cosa ho bisogno, così ci mettiamo tutti calmi e tranquilli.
E fra poco si ricomincia…
Alessandro Volta, pediatra neonatologo