Non dovrei, ma quando penso a te penso a quella bara bianca che usciva lentamente dalla chiesa, in un insospettabile sabato pomeriggio di primavera. Era una di quelle giornate che sarebbe trascorsa così, tra una prova del coro in parrocchia e qualche scherzo sul sagrato. E, invece, ho trovato i tuoi genitori e tua sorella che piangevano disperati, mentre si stringevano attorno ad una bara che era piccola, così piccola che non potevano starci dentro le pistole di plastica, i dinosauri e tutti i giochi che ti piacevano quando eravamo bambini.

Io non sapevo cosa volesse dire essere malati al punto di morire. Non ho mai pensato che tu potessi andartene e nessuno ci ha mai preparati al fatto che un giorno non ci saresti stato più.

Non è una scusa. Avremmo dovuto ascoltare le nostre domande sospese, avremmo dovuto chiedere agli adulti che ci circondavano che cosa fosse un osteosarcoma, dal momento che questa parola ci appariva come qualcosa di spaventoso. Ma nessun adulto ha parlato e nessuno di noi bambini ha chiesto. Né prima, né dopo.

E quante cose ci sarebbero state da dire dopo. Avrei voluto portarti un fiore. Non so nemmeno dove sei sepolto, neanche adesso che sono adulta.

Avrei desiderato uno spazio ed un tempo in cui poter parlare di te. E invece rimani un dolce ricordo inespresso. Quando mi impongo di non pensare a quella bara bianca, mi torna in mente un regalo che ci siamo scambiati: una pistola, la tua preferita, in cambio del mio libro con le cornicette. Ed anche un pomeriggio passato a scrivere su un quaderno consumato. Quegli occhi indecifrabili li porto dentro di me da allora. E anche quando i ricordi si fanno confusi ed alcuni sentimenti sarebbero inspiegabili, emerge forte la certezza di averti voluto bene profondamente. Avrei voluto dirtelo.

Avrei voluto che non fosse andata così. Che tante cose non fossero andate così.

Ma è passato tanto tempo e non ho trovato alcun contenitore in cui mettere il tuo ricordo.

Questo pensiero non mi abbandona mai. Non ti ho mai dimenticato, vorrei che tu lo sapessi. Non ho mai trovato il modo di esprimere il dolore che mi porto dentro da allora, ma, senza saperlo, senza esserne consapevole, ho sentito la tua sofferenza e la tua paura. E quel feretro bianco che lasciava il sagrato di una chiesa cara ad entrambi è stato il segno di una pesante sconfitta.

Vorrei poter tornare indietro. Vorrei aver chiesto a mia madre di vederti. Vorrei aver pregato insieme a lei, che invece sapevo pregare da sola, quando nessuno poteva sentirla. Tutti sapevamo che te ne saresti andato, ma nessuno ha mai voluto rendere presente questa perdita perché potessimo prepararci. Era un altro tempo, era un altro mondo. Forse ero anche un’altra io. Non lo so più.

Ma tu sei esistito ed hai lasciato un segno. E tutte le volte che mi trovo a parlare di morte, di lutto e di perdita non riesco a non raccontare questa storia.

Molto probabilmente ciò che sono diventata lo devo anche a te. Ci sono cose difficili da spiegare.

Me lo ricordo il primo giorno di scuola. Eri diverso da qualsiasi bambino avessi mai conosciuto. Avevi un’esuberanza, una simpatia, una capacità di amare ciò che facevi tutta tua.

Se chiudo gli occhi e mi sforzo, mi sembra di ricordare persino la tua voce. Rivedo i tuoi capelli folti e castani, prima che la malattia li facesse scomparire. Riconosco i tuoi occhi dentro i cerchi scavati dalle cure e dalla solitudine.

Avrei voluto che qualcuno ascoltasse, in silenzio, questi pensieri. Avrei voluto non sentirmi sola. Perché siamo soli anche noi sai? Siamo rimasti soli senza di te. C’è un piccolo vuoto che mi porto dentro e che solo il tuo sguardo sfuggente potrebbe colmare. Ma tu non ci sei da tanto, troppo tempo.

Mi chiedo spesso se ci sarà mai un momento in cui ci potremo rivedere. Se quel giorno verrà, ti stringerò forte, per tutte le volte che avrei voluto abbracciarti e non l’ho fatto.

Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia

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