Melina, la protagonista del libro, è già nella nostra memoria, ancora prima di leggere la narrazione di suo figlio Crocifisso. Tutte noi, in un atteggiamento o nell’altro, ci riconosciamo in lei, donna eclettica e sorprendente, nata alla fine degli anni ’50, a volte antipatica e scostante, ma con un cuore colmo di generosità, tanto allergica a dare a vedere le proprie qualità da apparire una macchietta di se stessa in innumerevoli situazioni. È egocentrica, autocentrata, vuole attirare tutte le attenzioni su di sé, a volte, addirittura, sembra dimenticare i bisogni materiali dei figli, ma li vizia, quando può. Chi legge perdona tutto questo a Melina perché tali azioni rappresentano una difesa alla fragilità della donna e al ricordo delle privazioni da lei vissute durante l’infanzia e la preadolescenza. I primi anni di Melina, infatti, sono stati segnati sia dalla povertà più nera, sia dall’allegria. Le sorelle la ricordano come la più spavalda e divertente della famiglia, qualità che manterrà per tutta la sua vita. A otto anni, dalla sua città natale, Gela, si trasferisce con l’intera famiglia in una cittadina vicino a Milano, rinunciando alle sue amicizie e alla sua quotidianità. Melina racconta la sua vita, simile a quella di tante famiglie migrate dal Sud al Nord Italia all’inizio degli anni ’60, con la speranza di migliorare, anzi il più delle volte assicurare, la propria sopravvivenza economica. Dopo aver frequentato le scuole elementari, per alcuni anni accudisce i fratelli più piccoli e quindi inizia a lavorare presso una parrucchiera. Lì si trova bene, ci sa fare con le signore ricche di Milano, ma a diciannove anni si deve sposare con Cristoforo, suo primo cugino, perché incinta. Nel giro di pochi anni nascono Crocifisso e Concetta, poi un aborto spontaneo farà attendere quattro anni la successiva maternità. Melina, nonostante la debolezza di un fisico provato da ripetute e ravvicinate gravidanze, lavora instancabilmente come donna di servizio nelle case della Milano bene, svolge servizi umili prestati sempre nel rispetto della propria dignità. “La vita, che sembra procedere imperterrita nella sua quotidianità scialba, a un certo punto comincia a sbandare, va fuori pista, il grigio vira al nero e tutto precipita piano piano. Il primo punto di rottura è la lunga malattia del padre, nonno Nunzio, che nel 2002 muore di cirrosi epatica.”  Proprio durante questi mesi, a soli 44 anni, le viene diagnosticato un tumore al seno, un “tuamore”, come verrà definito dal figlio Crocifissoforse per esorcizzare il male, forse per renderlo più sopportabile trasformandolo in una speranza possibile. Da adesso fino alla morte, che arriverà nel 2020, a soli 62 anni, ci saranno sempre più momenti di affanni alternati da sporadici momenti di illusoria serenità. L’autore/figlio alterna quadri di vita trascorsa insieme alla madre a scene impietose della malattia, da cui emerge una donna/una madre che ha sempre cercato di affrontare ogni problema, e sono stati tanti, con un sorriso e con quell’ironia che le ha dato la forza di sostenere la propria malattia. Per diciotto anni Melina deve convivere con il tumore, la paura della morte e il terrore di perdere i suoi figli e i nipoti che stanno via via arrivando. Oltre alle gravi preoccupazioni date dalla malattia, a Melina non vengono risparmiate neanche quelle economiche. La vita di una malata di tumore costa molto e i soldi della pensione del marito non sono sufficienti. Deve rivolgersi alle sorelle e alla bontà di alcune vicine e le sembra di essere ritornata alla sua infanzia a Gela, quando sia pasti che cene non erano certi. Crocifisso le è sempre accanto, spaventato e impreparato, come tutti i figli che devono affrontare la sofferenza fisica ed emotiva della propria madre, spesso trattato da lei amorevolmente ancora da bambino, forse per fare sopravvivere, il più a lungo possibile, il ricordo condiviso del tempo felice della sua infanzia. Nel suo ricordo, che non è ancora memoria, Crocifisso si rivolge alla madre in seconda persona, quasi dialogando con lei, ormai morta: “non sei mai diventata intrattabile, guardavi alla te stessa malata come un doppio da accogliere con tenera pietà. […] Il male non potevi sfrattarlo ma avevi deciso che nel luogo dove lo combattevi ti presentavi con tutta la dignità che ancora potevi esibire.” Melina ha capito di non potersi relazionare con il suo “doppio” di persona malata e destinata alla morte, lo accetta, ma le sue relazioni vere, reali devono avvenire con persone. Pur consapevole della sua morte ormai imminente, continua a scherzare con le persone che la hanno in cura, dal signor Armando, l’autista per le visite ospedaliere, alla sua oncologa, al medico di famiglia. È nelle relazioni con gli altri che Melina trova la forza per andare avanti, per non cedere e per non perdere il suo sorriso, sempre meno luminoso, ma presente ogni giorno. Il figlio, nel corrispondere quell’amore incondizionato, il più importante della sua vita, con delicatezza esprime tutta la sua affettuosa gratitudine per una donna, una madre speciale nella sua normalità e avvia il suo percorso di elaborazione della perdita: “non temo il dolore, che anzi sono pronto a custodire, perché per me il dolore è memoria.” La memoria da dolore diventerà affetto, accompagnato dai tanti ricordi, insegnamenti e dalle ultime riflessioni della madre scritte su tanti foglietti sparsi in un cassetto.

Non mi sono mai fermata un attimo. La sera andavo a dormire sempre stanca morta. Sognavo di godere un dolce far niente. Il destino mi ha accontentata. Ora il mio tempo è immobile. Solo che è il cancro a costringermi a vivere come una pianta conficcata nella terra.”

Forse la mia fine non è così lontana. Faccio finta di non capire ma mi sono accorta di come mi parlano tutti […] faccio finta di non capire perché mi fa paura che la loro paura sia più grande della mia”. 

Sono pronta a trasferirmi nell’aldilà, ho già fatto le valigie. Ma per quanto sia andata a catafascio è questa vita terrena la sola che mi scalda il cuore. Lascio a malincuore i miei affetti. Nessuna luce che mi aspetta dall’altra parte può ricompensarmi.”

E’ impossibile non domandarsi se il progetto dell’opera sia nato da questi biglietti, forse lasciati per avere la certezza di non essere dimenticata.

Ilaria Bignotti, psicologa

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