Quando ero piccola mia nonna ci narrava storie che i grandi definivano “le favole di una volta”. Diceva che le erano state utili per diventare “grande”. Il libro da cui le leggeva era senza copertina, logoro con le pagine ingiallite dal tempo. Sembrava un prezioso cimelio da un tempo passato. Era un testo dell’800 e si chiamava “Le novelle delle fate”. Nonna raccontava che avevano aiutato tante bambine come lei e ricordava che le vicine di casa le tramandavano facendo i mestieri con le/i loro figlie/i. Alcune fiabe erano spaventose, altre tristi ma tutte avevano un lieto fine e infondevano speranza. Oggi vorrei riassumervi quella che si intitola “Una Madre”. Vi erano diverse versioni che si tramandavano; a volte i suoi piccoli protagonisti erano ancora nella pancia, altre erano appena nati ma molto, molto malati…

C’era una volta una madre con il suo bambino in grembo, una notte sentì una fitta molto forte e ad un tratto sentì picchiare alla porta. Entrò un povero vecchio imbacuccato perché era inverno; tutto il paese era coperto di ghiaccio e neve: immobile. Il vecchio tremava e la madre gli offrì del vino che scaldò sulla stufa. Mentre si accarezzava la pancia per il forte dolore disse: “Non credi anche tu che lo potrò salvare?”. Il vecchio era la Morte e fece un cenno che poteva dire tanto sì, quanto no. La madre chinò il capo, le lagrime le rigarono le gote. Si sentì un gran peso alla testa: non aveva dormito da tre giorni e tre notti per la preoccupazione di alcuni dolori al basso ventre e si addormentò; ma fu solo un momento …Ma il vecchio non c’era più e non c’era più neppure il suo pancione con il suo bambino. Allora la povera madre si slanciò fuori di casa chiamando disperata. Là fuori, tra la neve trovò seduta una donna vestita con un lungo abito nero che disse: “La morte è stata a casa tua; l’ho vista io volar via con il tuo piccolino sulle braccia: corre più lesta del vento e non riporta mai chi ha preso!” “Dimmi solamente per quale strada si è incamminata e io la raggiungerò…” “Se vuoi sapere la strada dovrai cantarmi tutte le canzoni che cantavi al bimbo nella tua pancia: io sono la Notte e quando tu le cantavi mi piaceva”. La madre disse che non aveva tempo ma la Notte fu irremovibile e così la madre cantava e piangeva. Finalmente la Notte disse: “Vai dritta nella oscura pineta…” Cammina cammina, incontrò una marruca quasi del tutto congelata che disse: “Se vuoi che ti dica dove è andata dovrai abbracciarmi e accarezzarmi come facevi con la tua pancia…ti ho visto e mi piaceva la tua tenerezza”. La madre lo fece fino a scongelarla e sanguinare per le sue punte …Quindi la marruca che iniziava a sbocciare per il calore della madre la mandò al lago. Per passare nel suo gelo il lago disse: “Se vorrai attraversami dovrai donarmi i tuoi occhi che guardavano quella pancia come al tesoro più grande” e così gli chiese i suoi occhi belli come perle…e la madre pianse e pianse così tante lagrime che alla fine le caddero gli occhi nel fondo del lago. Il lago come in un’altalena la trasportò sull’altra riva dove vi era una serra meravigliosa. La madre divenuta cieca chiese dove poteva trovare la Morte e una vecchia con i capelli bianchi disse che lì non era ancora arrivata ma che tra un po’ sarebbe giunta e avrebbe piantato tutti i fiori di coloro che aveva preso alla vita quella notte. Aggiunse: “Se io ti dirò cosa fare tu potrai sapere il loro destino: sono tutti fiori e alberi come gli altri ma tu li riconoscerai perché il loro cuore batte. Ora va e forse riconoscerai il tuo piccolino dal suo piccolo battito. Ma prima mi devi darmi qualcosa…voglio i tuoi lunghi capelli neri e io ti darò in cambio i miei che sono oramai bianchi”. Fecero immediatamente lo scambio. Allora entrarono nell’immensa serra dove crescevano fiori ed alberi della vita in grande quantità (provenivano da tutto il mondo ed erano di ogni specie). La madre si chinava su ognuno e alla fine disse: “Eccolo!” e tese la mano su un pallido fiorellino di croco, che pendeva da un lato tutto appassito. “Non toccare il fiore, mettiti qui e quando arriverà la Morte non lasciarle sbarbare la pianta e minacciala di fare altrettanto con altri fiori! Questo le darà soggezione perché ha bisogno del permesso del buon Dio prima che alcuna pianta possa essere divelta”. La Morte entrò e chiese: “Come hai fatto ad arrivare qui prima di me e trovare la strada?” – “Sono una madre”. E la morte stese la lunga mano verso il pallido fiore, la madre mise le sue mani per impedirle di toccarlo, la Morte le soffiò sulle mani e la donna senti l’alito più gelato del vento che gliele fece cader giù spossate. “Non puoi nulla contro di me” …e lei rispose: “Ma può il Buon Dio”. “Io faccio solamente ciò che Egli vuole, io sono la coltivatrice del suo giardino. Prendo alberi e fiori e li trapianto nel paese ignoto del giardino del Paradiso. Come poi vegetino là e che cosa vi sia, non te lo posso dire”. “Rendimi il mio bambino nel pancione” continuò la madre supplicando: “Se non me lo rendi, io ti strapperò tutti gli altri fiori”. La Morte disse: “Tu dici di essere tanto infelice e ora vorresti fare lo stesso ad altre madri?”  La donna si ritrasse ripetendo le parole della morte “..ad altre madri….”. La morte allora le restituì gli occhi che aveva raccolto nel lago dicendole: “Ora i tuoi occhi sono più lucenti di prima e puoi guardare alla sorgente qui vicina. Io dirò i nomi dei due fiori che stavi per strappare e tu vi potrai vedere le vite umane che volevi troncare”. La madre guardò e la prima era una vita di gioia serena, una vera benedizione nel mondo che diffondeva gioia a chi gli era intorno e l’altra esistenza invece era una lunga catena di cure, affanni, dolori e miserie angoscianti. “Entrambe” disse la Morte: “Sono volontà del Signore”. “Qual è il fiore dell’infelicità e quale della benedizione?” chiese la madre. “Questo non posso dirtelo ma devi sapere che uno dei due fiori e uno dei destini che tu hai veduto, era quello del tuo futuro figlio.” “Quale? Va bene, non lo voglio sapere ma salva quell’innocente, salva mio figlio da tanta miseria. Piuttosto conducilo via. Portalo nel giardino del Paradiso. Non badare alle mie lagrime, dimenticati le mie preghiere e tutto quello che ho detto e fatto”. Allora la morte se ne andò via con il bambino del pancione nel paese da cui non si ritorna mai più…

La favola parla dell’aborto spontaneo. Ancora oggi questa morte non indotta dell’embrione o del feto prima della 20° settimana può essere frequente. Nonostante la parola “spontanea” faccia pensare a qualcosa di istintivo, libero e volontario questo tipo di aborto non ha nulla che parli di una scelta. Come nella favola l’esperienza dell’aborto porta con sé dolori spesso inesprimibili se non con il pianto; spesso è vissuto con solitudine lacerante (come se il paese fosse immobile coperto da silenzioso ghiaccio). L’aborto implica percezioni corporee improvvise che si tendono a non dimenticare più; può fare aumentare il rischio di aborti, ansie e paure nelle gravidanze future e a volte, può essere accompagnato dal raschiamento dell’utero (causando ricordi corporei che possono essere rivissuti di giorno o in incubi notturni). Questa favola mi ha sempre resa triste ma anche donato speranza. Mi faceva ricordare i due bambini persi da mia nonna e sperare che stessero bene. Oggi mi sembra parlare delle fasi dell’elaborazione del lutto: attraverso il dolore di canzoni, carezze, speranze e cure donate che nessuno potrà mai cancellare o sostituire con altri bambini. Un’elaborazione dolorosa che piano piano potrà divenire accettazione e far cambiare il proprio sguardo, fortificando i propri occhi (come nella novella) per guardare avanti dopo il trauma; un’elaborazione che potrà anche passare attraverso umane gelosie/invidie di vedere altre pancine sbocciare e che ricordano l’ingiustizia della perdita subita (fiori che la madre è tentata di recidere); un’elaborazione fatta di lacrime dolorose che fanno invecchiare prima del tempo (i capelli bianchi)… ma un’elaborazione che in qualche modo troverà un modo per aprirsi all’integrazione del trauma nella propria vita trovandovi un senso, una speranza e forse, la condivisione di una storia narrabile per non dimenticare quell’amore grande.

Licia Barrocu

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