Difficile trovare un autore contemporaneo che più di Borges sappia accendere contatti, far baluginare specchi che danno sul pozzo del tempo, tracciare mappe del sentimento e del pensiero umano. Nel magma terribile del novecento latino americano, questo autore ha la colpa e il vantaggio di accedere a un empireo di conoscenza sovrumana e forse di sovrumano distacco. Forse il troppo vedere, il troppo riconoscere, avvertire i troppi fili che collegano ogni cosa. Qui, in poche densissime parole ci ridà tutta la semplicità e tutta la complessità e tutta la profondità di una cosa tanto quotidiana quanto centrale come la notte. Una cosa enorme, dentro e fuori di noi, tanto connaturata, tanto chiara e tanto oscura che “…nadie puede contemplarla sin vértigo / Y el tiempo la ha cargado de eternidad.

Storia della notte

Lungo il tempo delle generazioni

Gli uomini eressero la notte.

Era al principio cecità e sonno

E spine che lacerano il piede nudo

E paura dei lupi.

Mai sapremo chi forgiò la parola

Per l’intervallo d’ombra

Che divide i due crepuscoli;

Mai sapremo in che secolo fu cifra

Dello spazio stellato.

Altri generarono il mito.

La fecero madre delle Parche tranquille

Che tessono il destino

E le sacrificavano pecore nere

E il gallo che ne annuncia la fine.

Dodici case le diedero i caldei;

Infiniti mondi, il Portico.

Esametri latini la modellarono

E il terrore di Pascal.

Luis de León vide in essa la patria

Della sua anima trasalita.

Ora la sentiamo inesauribile

Come un antico vino

E nessuno può contemplarla senza vertigine

E il tempo l’ha affollata di eternità.

E pensare che non esisterebbe

Senza questi tenui strumenti, gli occhi.

Jorge Luis Borges

[da Storia della notte, a cura di D. Porzio e H. Lyria, in Borges, tutte le opere, vol. II, i Meridiani, Mondadori]