Nel suo illuminante saggio La sconfitta dell’occidente, lo storico e antropologo francese Emmanuel Todd mostra in modo assai convincente, dati alla mano, la parabola discendente che la nostra civiltà sta percorrendo, guidata dalla potenza imperiale di riferimento. Una delle principali chiavi interpretative per l’origine del declino delle società avanzate adottate da Todd è il processo graduale di perdita di ogni riferimento religioso, in senso lato. Nel libro egli delinea il passaggio da una fase di religione attiva (semplificando: pratica e fede), a una fase di religione zombie (si partecipa solo ai riti essenziali ma per costume, non per fede), a una fase di religione zero nella quale anche i riti vanno perduti. Questa prelude alla fase di “moralità zero” che, secondo lo studioso, i paesi dell’occidente stanno attraversando in questo momento, con situazioni che variano da paese a paese. Per avere misure oggettive del grado di allontanamento dalla religione, Todd usa alcuni indicatori che ritiene di alto valore diagnostico, uno dei quali mi ha specialmente colpito: il tasso di cremazioni[1]. In Italia questo tasso è passato dal 5,38% nel 2000 al 33,22% nel 2020, pur mantenendosi più basso del tasso registrato nel Regno Unito, in Francia e in Germania.

Mi ha fatto tornare in mente l’origine del carme “Dei sepolcri”, nel quale, 120 anni fa, Ugo Foscolo, pur da un prospettiva schiettamente materialista, paventava le conseguenze dell’Editto di Saint Cloud sul culto dei morti e dunque sulla stessa civiltà

[…]
Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscían quindi i responsi
de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religïon che con diversi riti
le virtú patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
[…]

Mi ha fatto tornare in mente i prati semivuoti della Certosa dei giorni nostri e la crudele prosaicità delle sepolture che ancora oggi lì avvengono (e immagino che sia lo stesso in tutte le grandi città): accanto al fosso dove sarà calata la salma c’è un operaio in tuta verde, col marchio della medesima azienda che si occupa dei rifiuti urbani, che aziona la piccola ruspa con la quale la bara viene ricoperta di terra. Ogni volta che vi assisto, così come ad altre pratiche funebri contemporanee e metropolitane, non posso non pensare che in effetti le spoglie mortali dei nostri cari, le nostre spoglie mortali sono trattate come rifiuti.

La pratica della cremazione allontana dai nostri occhi il momento in cui questi corpi diventano anch’essi oggetto di un processo di eliminazione industriale.

Forse questo approccio così pratico, così materiale, è la cifra della modernità. Forse è una via che si inoltra in contrade che fatichiamo a intravedere.

[…]
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.
[…]

Nel piccolo comune da cui provengo si ha ancora la fortuna di essere interrati da esseri umani vestiti in borghese, con le pale. Uno dei miei ricordi più cari, un profondo segno reale della pietas, è il suono potente, il tonfo della prima zolla che mio zio lasciò cadere sulla bara di suo fratello, mio padre. Una zolla enorme come le loro mani di contadini, una zolla nera della terra di cui siamo fatti, una zolla a cui sono seguite quelle di tutti i presenti che hanno voluto mettere le mani nella terra perché in quel mondo, che stiamo dimenticando, gli amati si accompagnano fino all’estremo con le mani, con le nostre mani. Terra, mani, nostre.

[…]
Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ‘l compianto de’ templi acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.
[…]

Questo è il mio misero tentativo di dono del 2 novembre, un modesto invito a tutti, incluso a me stesso: di rallentare, di prendersi un momento e di guardare quello che succede e il modo in cui procediamo nel mondo come individui e come società, provando a dargli un valore e non un costo, come ormai siamo disperatamente abituati a fare.

Per chi il mare nel sole è “paesaggio” – la vita sembra facile e anche la morte. Ma per un altro è specchio d’immortalità, è “durata”. Una durata che solo la sua stessa luce abbacinante non ti lascia cogliere. Se vi fosse un modo per ritrovarsi, nello stesso istante, davanti e dietro le cose, si capirebbe quanto la voragine del tempo, che inghiotte semplicemente gli eventi, perda il suo significato; proprio come in una poesia. E allora – giacché la poesia è uno sviluppo dell’istantaneo o, inversamente, una concentrazione dell’infinito – guadagni la libertà senza rifugiarti in alcun tipo di pirite.

Di una sola cosa si potrebbe prendere coscienza: che non tutto è in mano ai vivi.

Stiamo in cima a qualcosa di grande. Agitiamo le mani nel tentativo di afferrare il nulla che ci hanno insegnato a desiderare, sempre al limite dell’equilibrio, in punta di piedi su una montagna di forza e meraviglia che non degniamo nemmeno di uno sguardo.

Portate un abbraccio ai vostri morti.

[…]
San Salvatore, tu che sorvegli le tempeste,
Solleva l’occhio del mare e lascia
Che io percorra miglia nel verde della tua trasparenza
Per giungere là dove scavano i muratori del cielo
E ritrovare l’istante prenatale
Quando odoravano le viole se non capivo
Come il fulmine non capisce il suo lampo.
Ti percuote e basta – un globo sfolgorante.

[I primi tre frammenti di poesia sono tratti dal carme  Dei Sepolcri, di Ugo Foscolo. In seconda liceo la professoressa d’italiano ce lo fece imparare a memoria, 295 endecasillabi. Diciamo che sapevo bene la prima metà. Ad oggi ricordo giusto l’incipit, l’epigrafe e “Vero è ben, Pindemonte!”. Il pezzo in prosa e l’ultimo frammento di poesia sono di Odisseas Elytis, tratti da Il giardino che entrava nel mare, Argo editore, a cura di Massimo Cazzulo. Le foto sono mie.]


[1] Non c’è alcun giudizio di valore nell’uso di questo dato statistico, è semplicemente un parametro misurabile che è indice di un mutamento sociale e culturale.

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