Nel suo romanzo d’esordio Volevo salvare i colori, Aurora Ruffino ci accompagna in un viaggio intimo e struggente attraverso la storia di Vanessa, una giovane donna che, partendo dalla Norvegia, attraversa l’Europa fino a raggiungere il Marocco. Il suo è un percorso non solo geografico, ma soprattutto interiore, ispirato dalla farfalla Vanessa del cardo, da cui prende il nome scelto dalla madre durante la gravidanza.
Vanessa non ha mai conosciuto la madre: è morta dandola alla luce. Questa verità, svelata solo anni dopo dai nonni materni che l’hanno cresciuta, diventa la ferita fondante dell’identità della protagonista. Fin da piccola, infatti, Vanessa convive con un senso di colpa lacerante, espresso fin dalle prime pagine:
“Sono nata da sette minuti e ho già ucciso mia madre”.
Cresciuta in un ambiente affettuoso ma segnato dalla mancanza, la ragazza avverte la dolorosa assenza di una figura materna. Per colmare questo vuoto, Vanessa intrattiene un dialogo costante con la madre scomparsa, tramite lettere e riflessioni nel suo diario. La figura materna aleggia su ogni pagina del romanzo, tanto da sembrare, a tratti, la vera protagonista del racconto, mantenuta in vita dal profondo senso di colpa della figlia.
Il punto di svolta arriva quando Vanessa decide di ripercorrere simbolicamente la rotta della farfalla che le ha dato il nome. Durante il viaggio, incontra un gruppo di artisti di strada, una sorta di “famiglia itinerante” con cui sperimenta un raro senso di appartenenza e armonia. Solo con loro riesce ad aprirsi davvero, a pronunciare parole fino ad allora inconfessabili:
“Sono un’assassina. Ho ucciso la persona più importante della mia vita. Mia madre. L’ho fatto in un giorno speciale, di festa, in cui si sarebbe dovuto ridere e urlare di gioia. Invece, l’unico rumore che si sia sentito è stato il silenzio. (…) Ho ucciso mia madre il giorno in cui sono nata. Il tempo di strapparmi fuori dal suo grembo e lei è morta. Ho vissuto ogni singolo giorno (…) pensando di non meritarmi nulla, chiedendomi il perché e odiandomi fino alle ossa.”
Il romanzo segue da vicino il cammino di Vanessa, che si presenta come una giovane donna di ventun anni in bilico tra adolescenza e maturità. Tra le “prime volte” vissute lungo il percorso – il primo volo, la prima canna, il primo amore, la morte improvvisa di un amico, il contatto con un neonato – Vanessa impara a conoscere sé stessa e il valore della vita. Nei momenti di maggior libertà e gioia, la presenza della madre si fa più sfumata, quasi rimossa, mentre riemerge potente nei momenti bui, a testimonianza di un dolore mai risolto.
Lungo il racconto, la giovane annota con precisione il proprio itinerario, come una brava studentessa che vuole “fare bene i compiti”. Ma non è tanto il dove si trovi Vanessa a restare impresso nel lettore, quanto con chi sceglie di condividere il proprio tempo e la propria storia. A scandire ogni capitolo, inquietanti presagi di un possibile epilogo tragico:
“Questi sono i miei ultimi giorni prima della fine”,
“Buonanotte, amore, ancora non sai che quella di domani sarà la nostra ultima tappa.”
Il peso della colpa e della perdita tornano a schiacciare Vanessa quando muore un membro del gruppo: evento che risveglia in lei la convinzione di portare sfortuna a chiunque ami. Per questo si era allontanata dai nonni, per questo ha paura di affezionarsi e rimane sempre sul punto di andarsene. Il dolore dell’abbandono – reale o immaginato – diventa un meccanismo di autodifesa, un copione che Vanessa recita pur di non rivivere quel trauma originario.
Il viaggio si conclude in Marocco, dove avviene un momento di riconciliazione simbolica e spirituale. Vanessa sente la madre che: “Si avvicina a me, mi bacia la fronte, io chiudo gli occhi e non appena li riapro mi trovo in mezzo al campo di grano.” e le dice: “Devi imparare ad amarti e a volerti bene (…) Con il tempo imparerai a riconoscere quella voce interiore che ti accompagnerà a trasformarti nella migliore versione di te.” E, ora, come procederà?
Ilaria Bignotti Faravelli, psicologa
Ruffino A., Volevo Salvare I Colori, ed. Rizzoli, Milano, 2024.
Il battito d’ali di una farfalla
Il primo romanzo di Aurora Ruffino, Volevo salvare i colori (Rizzoli, 2024), è un’opera che sorprende per delicatezza e profondità. Attrice molto amata dal pubblico italiano, Ruffino esordisce nella narrativa con una storia intensa, tutta al femminile, che attraversa i temi della perdita, del senso di colpa, del bisogno d’amore e della ricerca di identità.
La protagonista è Vanessa, ventunenne norvegese, che intraprende un viaggio attraverso l’Europa per emulare la migrazione della farfalla Vanessa del cardo, quella che ha ispirato il suo nome. Un nome che le ha lasciato in eredità la madre, morta dandola alla luce:
“Sono nata da sette minuti e ho già ucciso mia madre.” [p.9]
Da questo momento, ogni passo di Vanessa è accompagnato da un senso di colpa profondo e segreto. Cresciuta dai nonni materni in un contesto affettuoso ma segnato dall’assenza, Vanessa costruisce un legame immaginario con la madre scomparsa, parlandole attraverso lettere e dialoghi interiori.
Un viaggio dentro (e fuori)
Quello di Vanessa non è solo un viaggio geografico, ma un vero e proprio cammino interiore, fatto di “prime volte” e di piccole rivoluzioni personali: il primo volo, il primo spinello, il primo amore, la prima morte improvvisa che tocca il cuore. Lungo la strada, si unisce a una “famiglia itinerante” di artisti di strada, con cui riesce – per la prima volta – a sentirsi davvero a casa.
Ma il dolore riaffiora ciclicamente, soprattutto nei momenti di gioia, quando la paura di essere una “portatrice di sfortuna” si fa più forte:
“Ho vissuto ogni singolo giorno […] odiandomi fino alle ossa.” [p.131]
Il romanzo alterna momenti di grande leggerezza a passaggi dal tono cupo e profondo. Ogni capitolo si chiude con frasi che lasciano presagire un epilogo tragico, sospendendo il lettore tra speranza e inquietudine:
“Questi sono i miei ultimi giorni prima della fine.”
“Domani sarà la nostra ultima tappa.” [p.216, p.222]
Tra adolescenza e adultità
Vanessa è una protagonista estremamente realistica, sospesa tra il mondo degli adulti e l’irrequietezza dell’adolescenza. Anche se ha 21 anni, si muove in equilibrio tra responsabilità e vulnerabilità, tra desiderio di fuggire e bisogno di legarsi a qualcuno.
Il romanzo esplora con grande sensibilità il tema dell’abbandono: Vanessa teme così tanto di essere lasciata da preferire di andarsene per prima. Inconsapevolmente, ripete il trauma originario della perdita della madre, tenendosi a distanza da chi ama, per “proteggerli” da sé stessa.
La rinascita
Il viaggio si conclude in Marocco, dove avviene un momento di riconciliazione simbolica e spirituale. Vanessa immagina – o forse vive davvero – un incontro con la madre, che le consegna un messaggio potente:
“Devi imparare a volerti bene. […] Imparerai a riconoscere quella voce interiore che ti accompagnerà a trasformarti nella migliore versione di te.” [p.258-259]
Non sappiamo se Vanessa porterà a termine il suo proposito, ma ciò che conta è il suo tentativo di salvarsi – e di salvare i colori, quelli della vita, dell’amore, della speranza.
Un esordio sorprendente
Con Volevo salvare i colori, Aurora Ruffino firma un debutto letterario intenso, autentico e poetico. Il suo stile è delicato ma incisivo, capace di raccontare il dolore senza retorica e di trasmettere la bellezza nascosta nei dettagli del quotidiano.
È un romanzo che parla a chi ha vissuto un lutto, a chi ha paura di legarsi, a chi cerca un senso in un mondo che spesso non ne offre. E soprattutto, è un libro per chi ha voglia di ritrovare – o salvare – i propri colori.
TANTE TAPPE, TANTE PERSONE
La ventunenne Vanessa esprime la seguente riflessione ai suoi nuovi amici: “Ho sempre pensato di essere sola nel mio dolore e che nessuno potesse capirmi, ma oggi sto scoprendo che non è così. Ognuno di noi ha la propria storia e non è vero che gli altri hanno un’esperienza di vita più facile della mia.”
Ilaria Bignotti Faravelli, psicologa
TANTE TAPPE, TANTE PERSONE
Aurora Ruffino, Autrice di Volevo Salvare I Colori, ci racconta il lungo viaggio della giovane Vanessa che, partendo dalla Norvegia, arriva fino in Marocco per emulare il viaggio della farfalla Vanessa del Cardo cui deve il suo nome. La madre aveva scelto tale nome durante i mesi di gravidanza. Saranno però i nonni a rivelare questa storia alla nipote: la madre, infatti, è morta dandola alla luce: “Sono nata da sette minuti e ho già ucciso mia madre” [p.9]. Vanessa, pur vivendo un’infanzia e un’adolescenza abbastanza felici cresciuta dai nonni materni, si sente sempre in colpa per aver provocato la morte di sua madre. Inoltre, giustamente la nonna rifiuta di farsi chiamare “mamma”, termine che alla piccola e alla giovane Vanessa manca molto come vocativo. Le manca così tanto da rivolgersi alla madre o in un continuo dialogo immaginario con lei o attraverso lettere indirizzate alla donna e scritte sul suo diario. La presenza della donna si percepisce e si legge in quasi tutte le pagine del libro, tanto da arrivare a pensare che talvolta la protagonista sia proprio lei, tenuta in vita dall’eterno senso di colpa di Vanessa. La figlia, infatti, si sente colpevole della dipartita della madre, ma non può confessarlo a nessuno: renderebbe gli altri infelici con questo pensiero. Sarà in grado di confessarsi solo con la sua “famiglia itinerante”, un gruppo eclettico di artisti di strada che incontra durante il suo percorso e con cui si sente “in armonia”, felice: “Sono un’assassina. Ho ucciso la persona più importante della mia vita. Mia madre. L’ho fatto in un giorno speciale, di festa, in cui si sarebbe dovuto ridere e urlare di gioia. Invece, l’unico rumore che si sia sentito è stato il silenzio. […] Ho ucciso mia madre il giorno in cui sono nata. Il tempo di strapparmi fuori dal suo grembo e lei è morta. Ho vissuto ogni singolo giorno […] pensando di non meritarmi nulla, chiedendomi il perché e odiandomi fino alle ossa.” [p.131] Da notare, durante la lettura, quanto la madre sia presente nei pensieri di Vanessa, insieme ai nonni, nei periodi più bui del suo viaggio, mentre venga quasi serenamente rimossa nei momenti di maggior serenità e libertà. Vanessa traccia per il lettore e per se stessa un programma di viaggio molto dettagliato e preciso, quasi volesse fare bene i compiti, come una brava studentessa. Il lettore, è anche questo il bello del libro, spesso dimentica di dove si trovi Vanessa, ma ha sempre presente con chi Vanessa trascorre il proprio tempo e una parte importante della propria vita. Ogni capitolo, però, si chiude con frasi inquietanti, come se Vanessa avesse già deciso il proprio destino, probabilmente tragico e drammatico: “Questi sono i miei ultimi giorni prima della fine”, “Buonanotte, amore, ancora non sai che quella di domani sarà la nostra ultima tappa.” [p.216,p.222] Pur essendo considerata adulta, Vanessa compie 21 anni durante il viaggio, quindi è in piena post-adolescenza e altalena comportamenti “da grande” ad atteggiamenti squisitamente adolescenziali, come deve essere a quell’età. Scopre anche l’amore, quello vero. Questo, infatti, per Vanessa è un viaggio pieno di “prime volte”, a partire dall’aereo: non ne aveva mai preso uno, al vedere un amico morire improvvisamente per un aneurisma, al provare il primo spinello, a immergersi nell’acqua del lago, fino ad arrivare all’amore e ad occuparsi di un neonato. Vanessa, quindi, impara a vivere; soprattutto sente come la vita possa anche essere meravigliosa e offrire sorprese di felicità. La perdita improvvisa di un componente della sua “famiglia itinerante” le impone di nuovo il peso di cui si è fatta portatrice sin da piccola: la consapevolezza, seppur solo immaginata, di portare infelicità o morte alle persone a lei più care. Per questo ha deciso di allontanarsi dai nonni. Non vuole, inoltre, affezionarsi a nessun altro e rimanere con qualcuno per molto tempo: pena una vita di sfortune per le persone che le stanno accanto. Vanessa è certa di aver assassinato la madre con la sua nascita, non accorgendosi di quanto l’abbandono di quest’ultima l’abbia ferita. Così, inconsciamente, Vanessa adotta la strategia di lasciare prima di essere lasciata, per non rivivere il grande dolore che si porta dentro ogni giorno. Una volta arrivata in Marocco, la giovane si ricongiungerà con la madre: “Si avvicina a me, mi bacia la fronte, io chiudo gli occhi e non appena li riapro mi trovo in mezzo al campo di grano.”, “Devi imparare ad amarti e a volerti bene, questo ti permetterà di liberare la mente e di vivere in profondità ogni singolo momento. […] Devi imparare a proteggerti anche da te stessa, e devi imparare ad avere sempre il coraggio di scegliere ciò che ti fa stare bene, ogni giorno. […] Con il tempo imparerai a riconoscere quella voce interiore che ti accompagnerà a trasformarti nella migliore versione di te. Ti aspettano grandi cose…” [p.258-259], ma in un modo tutto suo. Vanessa metterà in atto il proprio proposito? Lo porterà fino alla fine?
BIBLIOGRAFIA: Ruffino A. “Volevo Salvare I Colori”, ed. Rizzoli, Milano, 2024.
Ilaria Bignotti Faravelli, psicologa